Menù | Storia |
Negli anni ‘50, quando la Volkswagen iniziò ad esportare il Maggiolino negli Stati Uniti, incaricò l’agenzia pubblicitaria Ddb d’ideare una campagna che spingesse commercialmente la sua vettura, un po’ lontana dagli standard giganteggianti degli americani. La Ddb lanciò lo slogan “Think small” che bucò nella testa della gente, decretando il successo della piccola utilitaria tedesca. Probabilmente la storia citata rappresenta l’eccezione che conferma la regola. E in America la regola per diversi decenni è stata “Think big”, costituendo la base del successo della cultura USA nel mondo. Perché grande, nell’inconscio ottimismo di noi umani, è meglio. Proprio in ragione di questa filosofia, soltanto in Nord America poteva nascere un campionato automobilistico con “big” macchine, “very big” motori, “big” piloti e “big” montepremi: la Canadian American Cup, meglio conosciuta come Can Am. Per cominciare, il regolamento non prevedeva limiti di sorta alla grandezza dei motori e alle potenze erogate. A partire dalla prima edizione del 1966, si scatenò una corsa ai centimetri cubici che in una manciata di anni portò i motori da 5 a 8,3 litri con potenze intorno agli 800 CV. L’industria americana, e in particolare la Chevrolet, non faticò ad offrire alle squadre questi motori, caratterizzati da tromboncini d’aspirazione alti come vasi da fiori, avendo già in listino modelli che usavano i poderosi V8 “Big Block”. Al gigantismo dei motori corrispondevano macchine altrettanto imponenti, di concezione spesso artigianale. Qualcuno tentò di portare nella Can Am le sport che correvano in Europa, ma queste patirono sempre il gap di potenza con le macchine costruite appositamente per la serie e in particolare con la McLaren M8 Chevrolet che, declinata nelle varie evoluzioni, monopolizzò il campionato dal 1968 al 1971. A guidare questi bolidi arrivarono i piloti più dotati del panorama automobilistico mondiale: dagli americani Phil Hill, Mark Donohue, Peter Revson, George Follmer, Mario Andretti e Dan Gurney, a piloti che avevano costruito la loro fama in Europa, come John Surtees, Chris Amon, Bruce McLaren, Denny Hulme, Jackie Stewart, Francois Cevert e Jo Siffert. Ovviamente non fu la mostruosità delle macchine, il rombo feroce dei loro motori, la velocità dei circuiti o lo spirito d’avventura a spingere tutti questi assi verso la nuova serie. Seppure un pizzico di tutto questo poteva esserci stato nella determinazione di ognuno, ciò che più influì fu il montepremi faraonico messo a disposizione principalmente dallo sponsor ufficiale della Can Am: la Johnson Wax, multinazionale a conduzione familiare nata nel 1886 dall’iniziativa di un costruttore di pavimenti in legno, Samuel Curtis Johnson, che inventò una cera portentosa per mantenerli lucidi. Visto il successo del prodotto, l’imprenditore e i suoi eredi lasciarono perdere i parquet e si dedicarono all’ideazione di prodotti per la casa ancora oggi diffusi in tutto il mondo. Con una realtà così solida e munifica alle spalle, la Can Am poteva offrire premi mediamente superiori alle altre categorie. Il denaro e la possibilità di una vetrina sull’importante mercato nordamericano attirarono anche i costruttori. Così la questione di un’eventuale partecipazione alla serie d’oltreoceano finì sul tavolo di Enzo Ferrari, su proposta del suo importatore negli Stati Uniti, Luigi Chinetti. “Il Commendatore ci credeva e non ci credeva in quell’operazione.” - ricorda l’ingegner Giacomo Caliri, responsabile dell’aerodinamica in Ferrari dal 1967 al 1974, poi titolare in società con l’ingegner Marmiroli del Fly Studio, co-fondatore della Minardi, ex Direttore Tecnico di Maserati e attuale presidente di Expotecnica (www.expotecnica.it). Il vulcanico ingegnere siciliano si è gentilmente prestato a guidarci nel poco noto mondo delle Ferrari Can Am, ricordando che “All’epoca in Ferrari ci mancava soltanto di fare i go kart, poi costruivamo di tutto. E così facemmo anche la Can Am per Chinetti”. “Sono entrato in Ferrari nel gennaio del 1967” - continua l’ingegnere – “e dopo un certo periodo alle carrozzerie, precisamente dopo Le Mans, diventai il responsabile dell’aerodinamica, subentrando ad Edmondo Casoli, detto “millimetro”, autore delle più belle Ferrari di quegli anni: GTO, GTB, 250 LM, 330 P, P1, P2, P3 e P4 per citare le più note. Il primo lavoro fu la trasformazione della 412P3 che Chinetti aveva fatto correre nella celebre maratona francese in una sport adatta alla Can Am.” I lavori consistettero in una serie di alleggerimenti e semplificazioni della carrozzeria, che però non bastarono a rendere competitiva la vettura. Due P4 subirono allora una trasformazione più radicale che comportò anche l’installazione di un 12 cilindri a V di 60° più grosso, da 4.176,22 cc e 480 CV a 8.500 giri/min. Le due nuove barchette, denominate 350 Can Am fecero una figura dignitosa nel campionato ‘67, affidate a Chris Amon e Jonathan Williams, ma non riuscirono a infrangere la concorrenza spietata delle McLaren. Enzo Ferrari, nella sua limitata convinzione che la Can Am potesse avere effettivamente una risonanza importante sul mercato nordamericano, non era disponibile a correre dietro ai costruttori d’oltreoceano nella produzione di motori enormi che poi non avrebbero trovato un riscontro nella sua produzione di Gran Turismo. Chi lo convinse ad insistere fu Chris Amon, che voleva una Ferrari appositamente costruita da gestire per proprio conto, come già faceva con le Dino della Coppa Tasmania. Il Commendatore acconsentì così a portare il 12 cilindri a V di 60° fino a 6.222,16 cc, con un poderoso alesaggio di 98mm e una corsa di 78mm. Il nuovo motore da 620 CV a 7.000 giri/min fu montato su un’interessante barchetta, che servì a Caliri per sperimentare concetti aerodinamici poi riportati sulla 312P del medesimo anno. La nuova 612 Can Am debuttò con Chris Amon nella gara finale della stagione ‘68, ritirandosi dopo pochi giri. Durante l’inverno la macchina fu ulteriormente alleggerita, rivista nell’aerodinamica, nelle sospensioni e ritoccata nella potenza, che raggiungeva così i 660 CV, e si ripresentò sui campi di gara nel 1969, sempre con Amon pilota e responsabile dell’operazione. Fu la migliore stagione della Ferrari nella Can Am, con la 612 che finalmente si presentava non poi così distante dalle McLaren M8: nella gara sul celebre circuito di Watkins Glen, Amon arrivò terzo dietro a McLaren e Hulme, poi fece uno strabiliante secondo posto a Edmonton, ancora dietro al connazionale Hulme, quindi un altro terzo a Mid Ohio, dove fece segnare anche il giro più veloce. Nonostante la 612 Can Am avesse dimostrato più di una volta di poter seriamente minacciare le McLaren, mancò l’affidabilità, un’adeguata assistenza e il materiale di ricambio, al punto che una volta si dovette ricorrere ai cuscinetti di banco del motore Chevrolet per rimettere in sesto il 12 cilindri Ferrari. Si disse poi che l’esperienza accumulata nell’avventura americana da Amon servì alla Ferrari, che stava costruendo la grossa 512 5 litri per il mondiale Marche. Proprio la 512 rappresenta un tassello importante nella storia della 712 Can Am, l’ultimo tentativo per piegare la serie americana alla volontà del Cavallino.
Menù | Introduzione |
Amon abbandonò la Scuderia Ferrari alla fine del 1969 e Chinetti fu lasciato solo nella Can Am a pasticciare con le vetture Ferrari, creando strani ibridi e modificando il materiale esistente senza cavare un ragno dal buco. Per un po’ a Maranello non si parlò più della popolare serie americana perché c’era da digerire il flop della 312P, quello della 512 e preparare la riscossa con la velocissima 312PB. Tuttavia nel 1971 Chinetti si rifece vivo per lanciare un’altra operazione Can Am. “Per accontentare Chinetti si preparò la 712 Can Am, usando un telaio della 512M, ma la macchina nacque un po’ in fretta” - ricorda Caliri. Fu scelto il telaio numero 1010, che per l’ingegnere siciliano ha un significato particolare, essendo il primo della serie 512 a subire la trasformazione in versione M, e quindi fonte di una riabilitazione dopo un periodo di attrito con Enzo Ferrari: “Dopo la sfortunata 312P ero stato messo un po’ da parte. Ferrari aveva l’abitudine di metterci in “purgatorio”, come si diceva in azienda, a scontare il castigo. La carrozzeria della 512, infatti, l’avevo fatta sulle indicazioni di Forghieri. Nell’estate del 1970 Ferrari mi chiamò e mi chiese se da quando ero entrato a lavorare per lui avevo mai fatto le ferie. Risposi che no, in quattro anni non avevo mai potuto fare le ferie e tornarmene in Sicilia. Ferrari mi disse di andare in vacanza e la cosa mi lasciò talmente sorpreso che pensai si stesse preparando a licenziarmi. Quando tornai dalla Sicilia, Ferrari mi portò in reparto, dove una 512S si trovava sul banco di riscontro. “La vede quella macchina lì!”, mi disse in tono perentorio, ”non la voglio più vedere così! Faccia quello che vuole, la ribalti, la rigiri, la Modifichi, ma faccia qualcosa.” Lavorai sulle sospensioni con Rocchi, disegnai nuovi cofani nuove portiere, un nuovo airscope, tolsi la grande ruota di scorta dall’anteriore e la sostituii con un’altra gonfiabile, unii i doppi radiatori dell’olio anteriori in uno singolo. Sperimentai l’uso di un unico pezzo di vetroresina sulla parte anteriore del telaio al fine di renderla facilmente sostituibile in caso d’incidente. Alla 1.000 Chilometri di Zeltweg, con Jacky Ickx e Ignazio Giunti, la macchina modificata girò più veloce delle Porsche 917 ed era in testa quando si ruppe l’alternatore. Però alla 9 Ore di Kyalami finalmente vincemmo, sempre con lo stesso equipaggio. Le Porsche, nel frattempo passate dalla cilindrata di 4.400 cc. a 5000 cc., erano avvisate e per me questa vittoria significò la riabilitazione, tanto che ancora oggi sono affezionato al ricordo di quella macchina. Ma al rientro dal Sudafrica mi aspettava una brutta sorpresa: Ferrari mi disse che dovevo concentrarmi sulla nuova vettura 3 litri, perché nel 1971 avremmo corso con quella e non con le 512M, che sarebbero state affidate ai clienti (Penske, Juncadella, ecc.). Il 90% delle 512S venne modificato.” La piccola 3 litri in questione era la famosa 312PB con il 12 cilindri Boxer, capace di infastidire le Porsche nel 1971, nonostante la minore cilindrata, e di confermarsi regina del mondiale nel 1972 contro Matra e Alfa Romeo. Caliri ritrovò poi il fortunato telaio 1010 con la ripresa del discorso Can Am. In mancanza del tempo e delle risorse necessarie per sviluppare una macchina dal foglio bianco, il tecnico siciliano operò una strana fusione tra la base della 512 e l’efficace aerodinamica della 312 PB, adattata alle esigenze della nuova vettura. Il telaio semimonoscocca in alluminio della 512 era caratterizzato da un passo di 2.400 mm, da una carreggiata posteriore di 1.518 mm e una posteriore di 1.511 mm. Le sospensioni all' anteriore erano indipendenti a bracci trasversali, mentre al retrotreno si trovava uno schema a bracci longitudinali, con ammortizzatori telescopici idraulici accoppiati a molle elicoidali sulle quattro ruote. La frenata era assicurata da quattro generosi dischi autoventilati. . Rispetto alla 512 originale veniva mantenuta la stessa disposizione degli accessori del motore, con i radiatori dell'acqua davanti ai parafanghi posteriori, concentrati intorno al baricentro della vettura, e il radiatore dell'olio montato sul muso. In effetti, osservando la 512M e la 712 si può notare come la complessa struttura anteriore in vetroresina che ingloba la presa d'aria, frazionata in tre parti con le due alle estremità destinate ai freni, e lo scivolo che porta il flusso di raffreddamento attraverso il radiatore dell’olio, con relativo estrattore sul cofano, siano praticamente identiche sulle due macchine. La presenza di un radiatore sull’anteriore impedì a Caliri di adottare una delle caratteristiche aerodinamiche più efficaci della 312PB, dove lo scivolo aerodinamico ricavato nel cofano funzionava come un condotto Venturi, per sfruttare la forte pressione dell’aria sul muso e, dirigendo il flusso verso l’alto, ottenere una forza contraria che fornisse carico all’anteriore. La vettura mantenne lo stesso airscope della 512M, mentre sul cofano posteriore, appena dietro al motore, fu montata un’ ala estremamente bassa con supporto centrale, coadiuvata da un nolder piuttosto alto sulla coda tronca. Ad animare questa creatura c’era il 12 cilindri a V di 60° più grosso mai costruito dalla Ferrari: 6,9 litri di cilindrata, 92 mm di alesaggio per 86 mm di corsa, 750 CV di potenza a 8.000 giri/min, a cui corrispondeva una potenza specifica di 109 CV/litro e un rapporto potenza/peso di 1,1 CV/Kg. Al pari del suo predecessore di 6.200cc da cui derivava, questo propulsore aveva il monoblocco e le testate in lega leggera, la distribuzione a due alberi a camme in testa, quattro valvole per cilindro e l’ iniezione meccanica Lucas. Accoppiato a questo motore un cambio maggiorato a cinque marce. “Il trapianto fu fatto nel maggio del 1971, in vista della partecipazione di Arturo Merzario alla gara di Imola, valevole per il campionato Interserie (nda: la Can Am europea)” racconta Caliri. “L’idea era quella di testare il nuovo motore, in una categoria in cui non si doveva dichiarare la cilindrata. Il pilota comasco vinse, ma dopo la gara si lamentò un po’ per l’eccessiva esuberanza del motore. Al punto che, quasi quasi, avrebbe preferito il solito 5 litri.” Però i cavalli erano un ingrediente necessario a tenere il passo della McLaren e la nuova Ferrari, almeno sulla carta era competitiva, considerato che il nuovo big block Chevrolet da 8,1 litri, destinato alla versione F della M8, erogava 740 CV. Oltre al piccolo vantaggio in termini di potenza, a favore della 712 c’era anche un minor peso: 680 chili circa, contro 689. Il punto debole di questa Ferrari era la mancanza di uno sviluppo adeguato, specialmente dal punto di vista aerodinamico, che potesse valorizzare oltre alla maggiore potenza anche l’ottima qualità costruttiva, facilmente riscontrabile in un confronto diretto con realizzazioni più artigianali di altri concorrenti. A luglio del 1971 la Ferrari schierò direttamente la 712 nella corsa al Watkins Glen, affidandola a Mario Andretti. Il pilota istriano, fine collaudatore, non riportò un’impressione molto positiva del bolide: “E’ una delle macchine peggiori che ho guidato” - ricordò poi. Per l’occasione la vettura aveva ricevuto le prime modifiche aerodinamiche con l’inserimento di creste sui parafanghi anteriori e lungo tutto il cofano posteriore, per trattenere il flusso d’aria che scorreva sulle forme della carrozzeria. Nonostante le lamentazioni, Andretti riuscì a qualificarsi al quinto posto, fermando il cronometro sul tempo di 1’07”660. Per la cronaca, la pole andò a Jackie Stewart in 1’05”110, che si piazzò davanti alle due McLaren di Revson e Hulme, uniche altre vetture a scendere sotto 1’06” sul giro. In gara Andretti finì quarto, a due giri dal vincitore Revson e dietro la Porsche 917/10 di Siffert, avendo patito la rottura della grossa ala posteriore ed effettuato una divagazione fuori pista. Tutto sommato non era un brutto risultato, ma la macchina fu venduta alla Nart e ricomparve solo l’anno successivo, sempre al Watkins Glen, quando purtroppo il quadro della Can Am era bruscamente cambiato. Non si trattava più di combattere con la McLaren, ma con la Porsche, che aveva gettato nella mischia tutta la sua sofisticata tecnologia ed i suoi capitali. Le 917 in versione /10 e poi /30 sfruttavano tutta l’esperienza accumulata in Europa nel campo dei telai e dei materiali. Il 12 cilindri boxer raffreddato ad aria era stato pesantemente vitaminizzato, grazie all’innovativo uso del turbo, facendo schizzare improvvisamente la potenza intorno ai 1.000 CV. Anche ipotizzando che la Porsche non riuscisse a mettere tutta quella potenza a terra, la differenza dagli altri era comunque abissale. La Nart offrì la sua 712 al pilota Sam Posey, che in più occasioni aveva fatto bene con le 512M, ma l’americano rifiutò. L’offerta fu allora rivolta a Jean Pierre Jarier, collaudatore della March, con la quale aveva debuttato in Formula 1 nel Gran Premio d’Italia del 1971. Al Watkins Glen 1972 la macchina si presentò con una nuova ala più arretrata e più grande, un cofano posteriore privo di creste, mentre le paratie laterali anteriori furono alzate e interrotte prima di compiere l’intero arco dei parafanghi. Jarier partì dal ventiduesimo posto in griglia e concluse 10° a 12 giri dalla McLaren M20 di Hulme. Nemmeno il francese a distanza di anni si espresse troppo favorevolmente nei confronti della vettura, elogiando il motore ma condannando il telaio e l’aerodinamica. Su suo suggerimento la Nart apportò alcuni cambiamenti alla 712 Can Am, che a Elkhart Lake, a un mese di distanza, si presentò molto modificata: le creste dei parafanghi anteriori ora percorrevano l’intera carrozzeria, alzandosi progressivamente verso la coda, dove fungevano da supporto all’ala posteriore. Ci fu inoltre il raddoppio degli specchietti a periscopio con l’aggiunta di un altro elemento sulla sinistra dell’abitacolo. Con questa configurazione, Jarier fece segnare il decimo tempo in 2’13”860, contro i 2’04”562 che valsero a Hulme la pole. In gara il neozelandese dovette ritirarsi all’undicesimo giro per la rottura di un magnete e la corsa fu vinta dalla 917/10 TC di George Follmer, che concluse dando un giro al secondo classificato, Francois Cevert su una McLaren M8F. Jean Pierre Jarier terminò invece al quarto posto a 2 giri dal vincitore. Nonostante il miglioramento, che non era comunque sufficiente a tenere il passo delle Porsche, l’esperienza non venne ripetuta e la Nart rimise in naftalina la 712 Can Am, anche se non definitivamente. Nel 1974, nuovamente in occasione della gara al Watkins Glen, la macchina fu rispolverata, forse nel tentativo di approfittare di un grave smarrimento del campionato. Il lungo dominio della McLaren, a cui era seguito quello ancora più devastante della Porsche, unitamente al ritiro dello sponsor Johnson Wax, aveva precipitato la Can Am in una profonda crisi. In quella stagione, infatti, furono programmate solamente cinque corse contro le otto del 1973, a cui partecipò un numero limitato di squadre utilizzando principalmente materiale vecchio. La Nart per l’occasione diede una rinfrescata alla 712 Can Am con un nuovo airscope, più simile a quelli usati in Formula 1, con la bocca a sezione triangolare che aspirava al di sopra del roll bar e un cassoncino più capiente. La macchina fu affidata a Brian Redman che, partito dalla diciannovesima posizione, fece 14 giri da brivido risalendo fino al secondo posto, per poi ritirarsi con una sospensione rotta. Ultimo acuto della 712 e fine del primo ciclo Can Am. Il campionato fu resuscitato nel 1977 e rimase in piedi fino al 1986, con un regolamento tecnico altrettanto libero: il risultato fu ancora un noioso dominio della Lola, poi sostituita dalla Frisbee, entrambe motorizzate Chevrolet, fino a nuova morte della serie. Dopo la corsa del ’74, per la 712 Can Am iniziò un periodo di passaggi attraverso vari proprietari e collezioni, partecipando a concorsi d’eleganza e gare storiche in pista. Nel corso di questi passaggi di proprietà la macchina è stata restaurata e riportata allo stato con cui si presentava alla corsa sul circuito del Watkins Glen nel 1971, con Mario Andretti come pilota, senza però l’ala posteriore. Sotto la proprietà del brasiliano Carlos Monteverde, che l’aveva acquistata nel 2000, e affidata al pilota David Franklin, la 712 si è rivelata presenza costante e macchina competitiva nel Ferrari Maserati Historic Challenge, dove ha colto numerose vittorie nella sua classe. Meno fortunate le poche partecipazioni nella Super Sport Cup, riservata alle macchine Can Am, dove la 712 ha ritrovato le antiche rivali. Dal 2004 la macchina appartiene a Paul Knapfield che la impiega in diversi campionati, tra cui il Classic Endurance Racing, dedicato alle vetture sport che hanno segnato la storia delle corse di durata, dove spesso l’inglese è tra i protagonisti nonostante qualche problema con la guidabilità: “Il motore è potentissimo, ma ciò comporta difficoltà nelle curve strette, dove si deve continuamente dosare la potenza con l’acceleratore per evitare di finire in sovrasterzo. Con il restauro totale degli anni scorsi, la macchina ha comunque un comportamento migliore” confida l’inglese: “Con il montaggio di un’ala posteriore la macchina potrebbe guadagnare 4-5 secondi al giro su una pista come Spa, ma a quel punto ammazzerebbe il campionato (n.d.a. la CER). Mi piace correre in questa categoria e quindi voglio che la macchina assomigli il meno possibile ad una Can Am estrema.” Grazie alla sua generosa potenza, la 712 Can Am è comunque molto competitiva e rimane uno degli oggetti più affascinanti che si possono ammirare in questo tipo di corse. Il fascino è ulteriormente incrementato da i “se” e i “ma” che pendono sulla sua storia, nell’ipotesi di un impegno più coraggioso della Ferrari su questo progetto. Come gli “Spaghetti Western” avevano sorpreso gli americani per il loro realismo, battendo uno dei prodotti tipici del cinema americano, la “Spaghetti Can Am” avrebbe potuto imporsi nella popolare serie d’oltreoceano. La consolazione dagli interrogativi è poter semplicemente ammirare la 712 Can Am fendere i rettilinei a tutta velocità con la sua sagoma rossa, e riempire l’aria con il suono pieno e poderoso del suo 12 cilindri, autentica ebbrezza per i sensi.
Menù | Introduzione | Storia |
Un particolare ringraziamento all’Ingegner Giacomo Caliri per la sua disponibilità nello spiegare i dettagli tecnici della 712 Can Am e il contesto in cui è nata, e a Paul Knapfield per aver cortesemente risposto alle nostre domande.
Tutti i nomi, i loghi e i marchi registrati citati o riportati appartengono ai rispettivi proprietari.
Tutti gli articoli, le fotografie e gli elementi grafici presenti in questo sito sono soggetti alle norme vigenti sul diritto d'autore;
é quindi severamente vietato riprodurre o utilizzare anche parzialmente ogni elemento delle pagine in questione
senza l'autorizzazione del responsabile del sito.