Ferrari 156

La conversione

Chi si è occupato dal punto di vista storico di Enzo Ferrari e delle sue macchine, prima o poi ha dovuto fare i conti con quell’infelice affermazione che “e’ il cavallo a tirare il carretto! Non ho mai visto un cavallo che lo spinge. Semmai ho visto degli asini!”, con il quale l’uomo di Maranello aveva liquidato Mino Amorotti, suo affezionato consigliere. Infatti, al rientro dal Gran Premio di Argentina del Gennaio ‘58, dove si era affermata la piccola Cooper a motore centrale di Stirling Moss, Amorotti si era precipitato nell’ufficio di Ferrari, vaticinando la fine delle monoposto a motore anteriore e ricevendo in cambio quella disgraziata risposta, poi ripetuta come un mantra davanti alla stampa (anche nella variante buoi) e consegnata definitivamente alla storia.

La piccola Cooper, con un motore Coventry Climax da 170 CV, contro i 280 del 6 cilindri Dino montato sulla 246 F1, vinse anche il successivo Gran Premio di Montecarlo con Trintignant. Ma Montecarlo era Montecarlo: il luogo dell’impossibile. Il titolo, infatti, finì nelle mani del ferrarista Mike Hawthorn e il pericolo maggiore, alla fine, era arrivato dalla Vanwall, piuttosto che dalla piccola Cooper.

Le sberle erano poi piovute violente nel 1959, quando il campionato fu monopolizzato dai “ragni”, come ormai erano definite le piccole Cooper di Jack Brabham, Bruce McLaren e Stirling Moss. La Ferrari aveva resistito solamente ai Gran Premi di Francia e Germania, dove prevalse Tony Brooks. La caduta della fortezza Monza, dove si presupponeva un vantaggio Ferrari grazie alla maggiore potenza, mandò definitivamente in pensione l’idea che le vetture a motore anteriore mantenessero un vantaggio sui circuiti veloci. La 246 era sì veloce, ma mangiava le gomme.

Qualsiasi fossero le ragioni che avevano spinto Enzo Ferrari a difendere l’impostazione del motore anteriore, erano destinate ad essere accantonate in favore di un maggiore pragmatismo. La svolta del Commendatore fu agevolata dal dibattito tecnico che si era scatenato all’interno dell’azienda, con il giovane direttore tecnico Carlo Chiti, arrivato a Maranello nel 1957 dall’Alfa Romeo, favorevole alla nuova impostazione. Ma la spinta finale venne da due personaggi in cui Ferrari aveva un’assoluta fiducia: Piero Taruffi e Vittorio Jano.

Lo stesso Chiti raccontò ad Oscar Orefici nel bel libro intervista “Carlo Chiti: sinfonia ruggente”, come era avvenuta la conversione: “Taruffi, già pilota dalla notevole esperienza, ma soprattutto ingegnere intelligente, ci aveva seguito a Zandvoort dove avevamo in programma delle prove private. Dopo quei test convenne con me che l’unica soluzione possibile era costruire una monoposto a motore centrale. Anche Jano, che Ferrari ascoltava con venerazione, era dello stesso avviso.”

Nell’inverno del ’59 l’ufficio tecnico della Scuderia fu impegnato su due fronti: da una parte un estremo tentativo di migliorare le prestazioni della Dino 246, dall’altra affrontare il tema del motore centrale. Non si trattava di lavorare per ottenere risultati nella stagione ’60, ma di arrivare pronti a quella successiva, quando sarebbe entrato in vigore il nuovo regolamento che prevedeva motori da 1500 cc e l’utilizzo di combustibile commerciale.

Sulla costruzione del nuovo prototipo il mondo doveva restare all’oscuro. In un’intervista del dicembre ’59 alla Gazzetta del Popolo, Ferrari ragionava ancora in questi termini: “Le mie Gran Turismo dove hanno il motore? Davanti o dietro? Se l’hanno davanti io devo costruire delle macchine da corsa che si adeguino alle formule costruttive delle vetture di serie.”

In realtà, già ad Ottobre la Ferrari si era fatta prestare una Cooper dalla Scuderia Centro-Sud di Mimmo Dei per provarla all’Aerautodromo di Modena e studiarne il telaio.

La 246P a motore posteriore fu allestita basandosi sul materiale a disposizione, cercando di copiare il telaio della Cooper e utilizzando il medesimo propulsore 6 cilindri a V di 65° della 246 tradizionale, depotenziato a 263 CV. Il lavoro più complesso riguardò il cambio, montato a sbalzo sul differenziale, e la sospensione posteriore, che abbandonava lo schema del ponte De Dion per adottare i quadrilateri trasversali già presenti all’anteriore.

Dopo le prime prove private, sempre all’Aerautodromo di Modena, effettuate tra Marzo e Aprile del ’60 con il collaudatore Martino Severi, la macchina fu spedita a Montecarlo per il secondo Gran Premio della stagione, con qualche contrarietà da parte di Carlo Chiti: “Quella vettura sperimentale volevo che fosse portata all’esordio da Phil Hill o von Trips e non da Ginther che era il nostro pilota peggiore. Non credo di offendere la sua memoria dicendo che andava pianissimo. Era stata una tipica impuntatura di Ferrari, geloso dell’eventuale successo di un progetto che lui non aveva condiviso.”

L’americano si qualificò decimo, ma non tanto per le sue scarse doti velocistiche, quanto per la rottura dei semiassi. Nella corsa dominata da Moss con la Lotus, la 246P durò 44 giri su 100, ma fu ugualmente classificata sesta. La stampa fece a pezzi la nuova creatura del cavallino. La reazione di Enzo Ferrari fu furiosa: “Basta con questi giornalai che prima pretendono macchine nuove e poi ci insultano appena fai una corsa!” e a Chiti disse di scordarsi di “partecipare a un Gran Premio di Formula 1 con questa macchina. Gli esperimenti li continueremo in Formula 2, con il motore 1500cc, in vista del cambio di regolamento per la prossima stagione.” E anche lui aveva ragione, a modo suo.

La 246P fu profondamente rivista, adottando una nuova carrozzeria molto più bassa e rastremata, sullo stile Cooper, un muso più corto e installando un’evoluzione del motore Dino 156 di Formula 2. Il 6 cilindri a V di 65°, disegnato da Vittorio Jano nel 1957, era caratterizzato originalmente da una corsa di 64,5 mm e un alesaggio di 70 mm, per una cilindrata totale di 1489,35 cc. La potenza massima di 180CV era erogata a 9000 giri/min. Nell’ottica di sviluppare il propulsore in vista dei cambiamenti regolamentari del ’61, Chiti accorciò la corsa a 58,8 mm e aumentò l’alesaggio a 73 mm, portando la cilindrata a 1476,60 cc. Come risultato ottenne 185 CV a 9200 giri/min.

La 156 F2 fu schierata in una sola corsa nella sua categoria, il Gran Prix di Solitude, vicino a Stoccarda, affidata alle sapienti mani di Wolfgang von Trips. Per permettere un confronto, la Ferrari schierò una vettura tradizionale a motore anteriore per Phil Hill. Al via la Porsche di Herrman s’involò in testa tallonata da von Trips e vi rimase per 17 giri. Ma il ferrarista sferrò il suo decisivo attacco a tre giri dalla fine, andando a vincere davanti ad una folla in delirio. Constatato che Hill aveva beccato 4 secondi al giro dal compagno di squadra, le ultime riserve di Ferrari sul motore centrale potevano essere definitivamente accantonate. Chiti ottenne carta bianca.

La Formula 2 a motore posteriore fu ancora schierata al Gran Premio di Monza, affidata a von Trips, in una giornata trionfale per la Scuderia di Maranello. La vittoria, infatti, andò a Phil Hill davanti a Ginther e Mairesse, tutti su Ferrari 256. Al quarto posto la Cooper di Giulio Cabianca della Scuderia Centrosud, spinta però da un motore Ferrari, e al quinto posto la macchina di von Trips. Tanto strapotere rosso era spiegabile con l’assenza delle scuderie inglesi, indignate per la scelta del tracciato di quell’anno, che comprendeva anche il pericoloso anello di alta velocità, dove serviva la cavalleria che le monoposto d’oltremanica non possedevano. Il Rac inglese inoltrò una protesta formale che non ricevette risposta e l’unica opzione possibile fu rimanere a casa. Capitalizzando lo studio della Cooper nell’inverno precedente e le esperienze con la 256P, poi trasformata in 156 F2, già a settembre l’ufficio tecnico della Ferrari era all’opera per preparare la vettura del 1961. La base di partenza era costituita da 4 tubi sagomati di 38 mm di diametro connessi tra di loro da traverse di diametro più piccolo. In vista dell’utilizzo di un propulsore da 120°, i due tubi portanti superiori erano sensibilmente divaricati per ottenere una culla per il motore più spaziosa. I serbatoi di lamiera rivettata, fissati ai lati dell'abitacolo, fornivano ulteriore rigidità strutturale al telaio, che era anche dotato di un generoso roll bar imposto dai nuovi regolamenti, in grado di fornire un minimo di protezione al pilota in caso di rovesciamento della monoposto.

Questa leggera e semplice costruzione venne vestita con una carrozzeria molto snella e bassa il cui tratto distintivo era il muso a punta, poi conosciuto come “ sharknose", con la doppia presa che permetteva di incanalare una maggiore quantità d’aria verso il radiatore. Una configurazione, frutto di primi rudimentali studi aerodinamici, che fu riportato anche sulle vetture sport del periodo. Le carrozzerie erano ricavate a mano piegando sottilissimi e fragili fogli di “allumag”, sotto la guida esperta di Medardo Fantuzzi, che fino al 1957 aveva curato il vestito delle bellissime vetture da corsa della Maserati, e dall’anno successivo aveva messo le sue capaci mani al servizio del Commendatore.

Per le sospensioni si riprese l’esperienza della monoposto di Formula 2, con uno schema di quadrilateri trasversali, ammortizzatori telescopici e molle elicoidali sia all’ anteriore che al posteriore. Per i freni la Ferrari continuò con i dischi Dunlop, ampiamente sperimentati nelle ultime stagioni. Al posteriore i dischi furono montati inboard, a lato del differenziale.

Il passo della monoposto era di 2320 mm e la lunghezza totale superava di poco i 4 metri, mentre entrambe le carreggiate misuravano 1200 mm e la larghezza 1380 mm. Il peso a vuoto era di 440 Kg, entro il limite dei 450 Kg previsto dal regolamento. Con il tempo si ottennero ulteriori alleggerimenti, scendendo a 420 Kg.

Ma ciò che nel 1961 avrebbe fatto la differenza rispetto agli avversari era certamente il motore. Chiti, con la collaborazione di Franco Rocchi e Angelo Bellei, aveva già ritoccato il Dino a V di 65° per la vettura di Formula 2 a motore posteriore del ‘60. In preparazione alla nuova stagione si continuò a giocare con le misure fondamentali, impostando un primo motore a corsa corta da 81 mm x 48,2 mm (Tipo 188), per una cilindrata complessiva di 1496 litri. La potenza saliva così a circa 200 cavalli con un deciso incremento del regime di rotazione a 10.500 giri/min.

Ma nella testa di Chiti girava un’altra idea ben più audace: allargare la V del motore da 65° a 120°. Con un alesaggio e una corsa di 73 mm x 58,8 mm e una cilindrata totale di 1476,60 cc, la potenza era leggermente inferiore alla precedente architettura: 190 CV a 9500 giri/min, ma il vantaggio fornito con l’abbassamento del baricentro della vettura, era tale da compensare la perdita di cavalli.

Nonostante la V allargata, i due motori mantenevano la medesima impostazione con blocco fuso in Silumin, distribuzione a 2 valvole in testa per cilindro, doppio albero a camme in testa mosso da una catena tipo Duplex. Il tallone d’Achille di questi propulsori era rappresentato dalle valvole che rompevano, un male comune anche al Climax FPF. La soluzione fu l’inserimento di una seconda valvola all’interno della prima, a stagione già inoltrata. Il propulsore di nuova concezione aveva anche problemi di pescaggio dell’olio dal basamento, risolti velocemente con l’inserimento di più pompe di circolazione. Per equilibrare i pesi il serbatoio dell’olio era piazzato tra il radiatore anteriore e la batteria da 12 Volt.

Doppia era anche l’accensione, con due candele Marchal per ogni cilindro. I distributori di accensione della Marelli nel 65° erano direttamente calettati sugli alberi a camme più interni alla V, mentre sul 120° gradi si trovavano in parallelo alle due bancate dei cilindri, alimentati da due alberini indipendenti che prendevano la loro potenza direttamente dall’albero motore. Tutti motori erano provvisti di motorino d’accensione, come prevedeva il nuovo regolamento.

L’alimentazione sul motore tradizionale era affidata ad una batteria di tre carburatori doppio corpo Weber 42DCN. Per il 120° la Weber preparò uno speciale carburatore triplo corpo invertito (40IF3C), che rappresentava una novità assoluta a livello mondiale.

Per la progettazione di cambio e trasmissione, Chiti poteva contare sulla collaborazione di Walter Salvarani, che disegnò un’unità a 5 marce+Rm con il differenziale ZF montato davanti al cambio e la frizione a sbalzo sul posteriore. Una soluzione originale che doveva garantire un ottimo raffreddamento della frizione stessa, un montaggio del gruppo motore cambio più basso ed una facile sostituzione dei rapporti.

Le marce erano tutte sincronizzate e un particolare meccanismo impediva di cambiare più di una marcia superiore o inferiore rispetto al rapporto inserito. La coda del cambio ospitava anche il motorino di avviamento.

Un po’ per quel muso particolare, un po’ perché era una macchina completamente differente da tutte le Ferrari che l’avevano preceduta, la 156 F1 mostrava un carisma che faceva ben promettere per la stagione successiva.

Per il ’61 Enzo Ferrari confermò la sua fiducia a Romolo Tavoni come direttore sportivo, mentre l’ossatura della squadra piloti era formata da Phil Hill, Wolfgang von Trips e Richie Ginther, a cui si sarebbero aggiunte diverse comparse e un protagonista a sorpresa.

Phill Hill viene raccontato dalle cronache come un tipo riservato che amava ascoltare musica classica per concentrarsi prima della corsa e, nelle giornate particolarmente calde, uso a salire in macchina con la tuta inzuppata d’acqua. Come molti piloti di scuola anglosassone e americana, Phil aveva un passato da meccanico e arrivò alle corse con le vetture a ruote coperte, per lo più inglesi. Enzo Ferrari lo ricordò come “non un uomo di classe eccelsa, ma sicuro e redditizio soprattutto sui circuiti di alta velocità… Era un buon pilota sulle vetture Sport perché nelle corse di lunga distanza riusciva ad armonizzare le sue innate doti di velocità con la regolarità e il rispetto della meccanica: una combinazione vincente.”

Von Trips, figlio unico di un’antica famiglia nobiliare tedesca, era arrivato alle corse per pura passione. Già nei primissimi anni del dopoguerra correva con tutto quello che trovava, macchine o motociclette, ma la sua passione doveva sfogarla di nascosto dalla famiglia, che per lui sognava un destino ben diverso. Dopo gli studi in agraria si avviò alla carriera di pilota professionista grazie all’appoggio della Mercedes e della Porsche. In Ferrari arrivò nel 1956, prima con le sport e poi con le monoposto di Formula 1, che prediligeva. Rispetto a Hill era considerato più aggressivo e lo stesso compagno di squadra ammise che “Trips era capace di prendersi dei grossi rischi che avrei voluto essere in grado di prendere anch’io, ed ero molto ansioso al pensiero del livello che avrei dovuto raggiungere per battagliare contro di lui. Era capace di arrivare al limite e oltre… lui aveva il soprannome di ‘Von Crash’.”

Su Ginther è già stato riportato il commento acido di Chiti: una verità parziale a cui vanno aggiunte le sue ottime doti di collaudatore, grazie anche agli studi in meccanica. Ferrari lo ricordò con un’insolita tenerezza rispetto ai risultati ottenuti: “Era un piccoletto dalla grande volontà. E aveva anche coraggio.” I suoi inizi furono agevolati proprio da Phil Hill, californiano come lui, che ne sostenne il proseguimento della carriera anche dopo la pausa della guerra di Corea. Ottenne risultati soprattutto con le ruote coperte, ma questo non gli impedì di entrare nell’orbita Ferrari nel 1960. Al Gran Premio di Montecarlo gli avevano rifilato subito la patata bollente della 246P, il prototipo a motore posteriore. Era andata com’era andata, ma qualsiasi fosse il pensiero di Chiti, Enzo Ferrari aveva avuto sicuramente le sue ragioni per fare quella scelta.

Il fronte della concorrenza parlava soprattutto inglese: per Cooper poteva essere tranquillamente valido il detto “squadra che vince non si cambia”. Alla guida dei “ragni” furono confermati il campione in carica, l’australiano Jack Brabham e il neozelandese Bruce McLaren. L’emergente Lotus si presentava con l’ancora acerbo Jim Clark e Trevor Taylor, a cui si aggiungeva Stirling Moss, che però correva per il Rob Walker Racing, mentre la BRM aveva ingaggiato Graham Hill e Tony Brooks.

Se il punto forte degli inglesi nelle ultime stagioni era rappresentato dall’innovazione nel settore dei telai, per il ’61 era più che mai necessario fare affidamento su quell’unico elemento, vista la carenza di motori adatti in cui si trovavano. L’annuncio del nuovo regolamento era stato dato per tempo (29 ottobre del 1958) dalla CSI, ma le squadre inglesi avevano passato due anni a cercare di boicottarlo, o almeno a renderlo più vicino ai propri interessi. Così, al via della stagione si ritrovarono con il solo Coventry Climax FPF: un 4 cilindri da 155 CV a 7500 giri/min, originalmente concepito per la Formula 2, in attesa di propulsori più potenti. Sia la Coventry Climax, sia la BRM, infatti, avevano in cantiere due nuovi 8 cilindri che però sarebbero stati pronti, nella migliore delle ipotesi, a stagione inoltrata.

Un pericolo più serio poteva venire dalla Porsche, che aveva deciso di approfittare del cambiamento regolamentare per tentare il colpaccio in Formula 1, dopo aver fatto qualche comparsata qua e là negli anni addietro con monoposto di Formula 2, derivate dalle Sport a ruote coperte. Il quattro cilindri boxer raffreddato ad aria delle monoposto 718 e 787, che dovevano prendere parte al campionato, arrivava pur sempre a 190 CV nelle versioni più spinte. La squadra, inoltre, aveva al suo servizio due solidi professionisti del volante come Dan Gurney e Jo Bonnnier. Il maggiore handicap della Porsche era la sua prudenza nell’affrontare quell’avventura e un budget limitato, per cui le monoposto non avevano nemmeno cerchi in lega, ma di normale acciaio stampato.

L’avvio della stagione era previsto per il 14 Maggio a Montecarlo, ma le squadre erano in giro per l’Europa già da Marzo per prendere parte alle corse fuori campionato. A differenza di Cooper o Lotus che andavano ovunque ci fosse un ingaggio, la Ferrari quell’anno limitò le sue partecipazioni a pochi e selezionati eventi.

La stagione del cavallino iniziò al Gran Premio di Siracusa il 25 Aprile, dove una rossa e fiammante 156 F1, al suo debutto in corsa, fu messa a disposizione di una giovane promessa del panorama automobilistico italiano. La questione era semplice: dopo la morte di Musso nel 1958 non si era più visto un italiano su una monoposto Ferrari nel mondiale. La stampa e i tifosi reclamavano una successione che tardava a venire: “Il Commendatore non voleva la responsabilità di mettere un italiano in macchina” – ricordò anni dopo Romolo Tavoni – “e allora si trovò una formula alternativa. La Ferrari avrebbe affidato una 156 alla FISA, la Federazione Italiana Scuderie Automobilistiche, che l’avrebbe iscritta a suo nome alle corse titolate e non.”

La selezione del pilota spettò alla FISA, che andò a pescare nel vivace campionato di Formula Junior: i candidati più quotati erano Raffaele Cammarota detto “Raf”, Renato Pirocchi (vincitore del campionato 1960), Giancarlo Baghetti (quarto pari merito con Giacomo Russo detto “Geki”) e Lorenzo Bandini. Il selezionato dalla FISA (e non ufficialmente anche della Ferrari) fu Baghetti: 26 anni, milanese, figlio di un’industriale, aveva iniziato a correre di nascosto dalla famiglia e si era messo in evidenza prima al volante di vetture Alfa Romeo e poi nella Junior, con una monoposto di Angelo Dagrada.

Dopo un po’ di apprendistato a Modena sulla 156, il giovane Baghetti fu spedito a Siracusa per il Gran Premio, che si teneva su un circuito alla periferia della città di 5612 m, da percorrere per 56 volte. Per studiarsi la pista Baghetti noleggiò una Fiat. Un lavoro meticoloso che gli consentì di qualificare la sua Ferrari in prima fila, accanto alla Porsche di Dan Gurney e davanti a John Surtees, Graham Hill e Jack Brabham. Per un’incertezza alla partenza si ritrovò risucchiato in ottava posizione, ma la sua rimonta fu irresistibile e in sei giri si portò nuovamente in testa, andando a vincere davanti a Gurney e a Jo Bonnier.

La 156 al suo debutto aveva consentito ad un novellino di vincere una corsa davanti a piloti di maggior esperienza: per la Ferrari si prospettava un campionato decisamente interessante.

L’avvio di stagione a Montecarlo, tuttavia, lasciò qualche amarezza. Chiti era contrariato perché ancora una volta il materiale sperimentale, in questo caso l’unico motore a V di 120°, era stato concesso a Richie Ginther e non a Hill o von Trips. In secondo luogo, il week end fu dominato dalla Lotus 18 di Stirling Moss nei colori del Rob Walker Racing. Ginther fece del suo meglio per sfruttare il motore che gli era stato dato, qualificandosi al secondo posto, davanti a Jim Clark e ai due Hill. Riuscì anche a partire in testa davanti alle Lotus, ma al quattordicesimo giro dovette cedere quasi contemporaneamente a Moss e Bonnier, con il compagno di squadra Phil Hill che si portava alle sue spalle. Verso metà gara i due ferraristi riuscirono ad avere ragione della Porsche di Bonnier e Ginther poté ridurre il vantaggio che Moss aveva accumulato, ma pur premendo come un dannato non gli riuscì di passare la nera Lotus, che vinse con un distacco di 3”. Al terzo e quarto posto si piazzarono Phill Hill e von Trips. Al termine della corsa Chiti si attaccò al telefono per chiedere al Commendatore di dotare, per il successivo Gran Premio d’Olanda, tutte e tre le macchine con il motore da 120°, ma la risposta che ricevette fu negativa.

Tornato a Maranello, la questione venne nuovamente affrontata con tutta la dirigenza presente e con qualche scintilla tra Ferrari e il suo Direttore Tecnico: “Come al solito – ricordò poi Chiti –nessuno osava contraddirlo, al che sbottai: o si corre come voglio, oppure è già pronta la mia lettera di dimissioni. Al che lui concluse: ‘Faccia come vuole lei’.”

Nella domenica di Montecarlo una vittoria per la Ferrari 156 arrivò comunque: al Gran Premio di Napoli, fuori campionato. Sulle strade di Posillipo, Giancarlo Baghetti colse un altro clamoroso successo, doppiando tutti gli avversari. Sul gradino più basso del podio il rivale Lorenzo Bandini con una Cooper-Maserati della Centro-Sud. Mentre la stampa italiana sparava titoloni a caratteri cubitali sul nuovo asso delle quattro ruote, a Maranello Enzo Ferrari si decideva a programmare il debutto di Baghetti nel Mondiale per il Gran Premio di Francia, che si sarebbe tenuto a Luglio.

Per intanto c’era da correre il Gran Premio d’Olanda, dove la Ferrari schierò tutte e tre le vetture con il propulsore da 120°, secondo il volere di Chiti. Fin dalle qualifiche von Trips e Hill si marcarono stretti, segnando il medesimo tempo: 1’35”7, con Ginther al terzo posto, staccato appena di 2/10. In gara von Trips mantenne saldamente la testa della corsa davanti a Hill, che doveva anche affannosamente guardarsi negli specchietti per tenere a bada la Lotus di Jim Clark, autore del giro più veloce. Ginther, invece, scivolò indietro chiudendo al quinto posto.

A metà giugno il circus si ritrovo a Spa-Francorchamps per il tradizionale Gran Premio del Belgio, la Ferrari schierò una macchina in più con il motore a 65° per Olivier Gendebien e ancora una volta monopolizzò la prima fila: in pole Phil Hill, unico a scendere sotto il piede dei 4’ minuti a giro (3’39”3), seguito da von Trips e da Gendebien. Ginther fece segnare il quinto tempo dietro alla Cooper di Surtees. I primi giri della corsa videro in testa la gialla 156 di Olivier Gendebien, poi passò in testa la monoposto di Phil Hill, tallonata da von Trips. I due piloti si giocarono la vittoria in volata, con l’americano che prevalse di 7/10 sul compagno di squadra. Al terzo posto la Ferrari di Ginther, autore del giro più veloce, davanti a Gendebien. Primo dei non ferraristi ancora Surtees su Cooper.

In Francia, sul velocissimo circuito di Reims, la Ferrari schierò ancora quattro macchine, di cui una iscritta dalla FISA per il debuttante Giancarlo Baghetti. Sulla carta era ancora un circuito propizio al cavallino e alla superiore potenza dei suoi motori, come dimostrarono le qualifiche con l’ennesima prima fila tutta rossa (Hill, von Trips e Ginther nell’ordine, mentre Baghetti si era piazzato 12°). Nei fatti la Ferrari andò ad un passo dal disastro più completo, causa la fragilità delle valvole e il circuito sporco. Von Trips si ritirò dopo diciotto giri per rottura del motore; Ginther fu classificato 15° a dodici giri, ma di fatto era un ritiro per pressione dell’olio azzerata. Phil Hill concluse al nono posto con l’impressione di aver gettato al vento un’opportunità: “Ero molto seccato dopo la gara perché era stata il più grande fallimento di tutta la stagione. Le cose sarebbero potute andare in modo completamente diverso. Ho buttato via nove punti. Tutti avevano difficoltà per i sassi che entravano attraverso il radiatore e cercai di evitare di seguire le altre macchine ad alta velocità per scongiurare il problema. Stavo per doppiare Stirling e pensai ‘Devo arrivare vicino a Moss prima di raggiungere la (lenta curva) Thillois o mi troverò i sassi nel radiatore.’ Passai Moss ma andai in testacoda e lui mi colpì sul fianco mentre mi giravo.” Fuori gioco le Ferrari ufficiali, in lizza per la vittoria rimanevano Dan Gurney, Jo Bonnier sulle Porsche 718 e la quarta Ferrari del giovane Baghetti, che al 41° giro passò addirittura in testa. Iniziò un duro confronto con qualche scorrettezza da parte dei due “anziani”. Bonnier rimase poi attardato per problemi alla vettura, mentre Gurney e Baghetti si giocarono la vittoria all’ultimissima curva, dove l’italiano prese la scia della Porsche, sfruttò tutta la maggiore potenza del suo motore e tagliò per primo il traguardo con 1/10 di vantaggio sull’americano. Difficilmente si poteva immaginare che la giornata Ferrari sarebbe stata salvata da un debuttante. Altrettanto difficile immaginare, soprattutto per il giovane italiano, che quel brillante esordio rappresentava già l’apice della sua carriera: giornate così Baghetti non ne avrebbe mai più vissute. Gli sarebbe comunque rimasto il record di unico debuttante vincente alla prima corsa nella storia della Formula 1 (olte a Farina, naturalmente).

L’appuntamento successivo portava la Ferrari nella tana del lupo: Gran Premio d’Inghilterra, sul circuito di Aintree. Phil Hill fece segnare la pole, seguito da Ginther. Accanto a loro la Porsche di Bonnier. In seconda fila la Ferrari di von Trips accanto alla Lotus di Moss, mentre Baghetti si qualificò con il 10° tempo.

Il cielo rovesciò pioggia in abbondanza sul circuito: “Odiai Aintree – ricordò poi Phil Hill – perché pioveva così forte che era difficile riuscire a capire dove si trovavano le pozzanghere. Ebbi un momento davvero critico quando urtai dei paletti a Melling Crossing, e persi l’entusiasmo. Ero felice di venir via da Aintree con sei punti e la vita.”. Hill chiuse comunque al secondo posto, dietro a Von Trips e davanti a Ginther. Baghetti, invece, aveva tenuto fino al 29° giro, per poi ritirarsi per incidente.

Sui tormentati 22 chilometri del Nurburgring, sede tradizionale del Gran Premio di Germania, la prima fila dello schieramento dava l’impressione di un margine molto meno netto per la Ferrari rispetto ad altre piste: pole a Phil Hill, che condivideva la prima fila con la Cooper di Brabham, la Lotus di Moss e la Porsche di Bonnier. Von Trips era quinto, Ginther quattordicesimo, davanti all’altra 156 che per l’occasione fu affidata a Mairesse. Jack Brabham portò al debutto il nuovo 8 cilindri della Coventry Climax: con una cilindrata di 1496cc, il nuovo propulsore erogava 185 CV a 8500 giri/min. Un bel salto in avanti rispetto all’esangue FPF.

La vittoria andò alla Lotus di Stirling Moss, che fece valere la sua maestria in condizioni variabili: lungo l’interminabile pista, infatti, c’erano tratti asciutti e tratti battuti dalla pioggia. Dietro all’inglese si piazzarono Von Trips e Phil Hill, con Ginther ottavo. Ritirata per incidente la quarta 156 di Mairesse.

L’appuntamento successivo sembrava essere ancora favorevole alle Ferrari: sul veloce circuito di Monza, il potente 6 cilindri Dino poteva ancora fare la differenza. In pole si piazzò von Trips, davanti a Ricardo Rodriguez, ingaggiato per l’occasione dalla Scuderia di Maranello. In seconda fila le Ferrari di Ginther e Hill, con quest’ultimo afflitto da problemi alle molle delle valvole. La sua vettura, infatti, era stata utilizzata per una sessione di prove in vista del Gran Premio e Hill aveva la netta sensazione che il motore fosse stato sforzato: “La mia macchina era ovviamente tornata a Monza senza cambio di motore, così supponevo che alcune molle delle valvole fossero rotte. – ricordò Hill - Una volta che le piccole valvole interne erano danneggiate, non potevi sentire il guasto quando mandavi su di giri il motore, ma era solo una questione di tempo, finché si sarebbe rotto.”

Durante la notte tra sabato e domenica Hill ottenne il cambio di motore e alle sette del mattino l’americano era già sulla pista per verificare il lavoro svolto dai meccanici ed effettuare alcune prove.

Al via Rodriguez scattò in testa, ma alla fine del primo giro le vetture si presentarono sul traguardo nel seguente ordine: la Ferrari di Phil Hill, la Lotus di Taylor, quindi Ginther, von Trips, Rodriguez, Clark, Brabham e Baghetti. Nel corso del secondo giro, a 200 metri dalla Parabolica, alcuni testimoni videro la verde Lotus di Clark tamponare la Ferrari di von Trips e spedirla fuori pista. La Lotus si fermò a lato, ma la 156 del tedesco saltò sul terrapieno e rimbalzò due volte contro le reti di protezione, finendo poi in pista. L’incidente costò la vita oltre che al pilota, anche a quindici spettatori che si trovavano dietro la rete. Il pubblico sparso sul resto dell’autodromo non parve accorgersi della gravità dell’incidente e la corsa continuò indisturbata. Hill si mantenne agevolmente in testa. Il momento più difficile fu quando Moss, deciso a giocarsi le ultime chance per rimanere in lizza nella corsa al campionato, sferrò un duro attacco all’americano, prima di essere rallentato da un calo di motore. Moss aveva deciso di utilizzare il vecchio motore FPF anziché il nuovo V8 Coventry Climax, ma la scelta conservativa non aveva comunque pagato.

Vittoria, dunque, a Phil Hill, davanti alla Porsche di Gurney e alla Cooper di McLaren. Le Ferrari di Baghetti e Rodriguez si ritirarono quasi contemporaneamente per rottura del motore. La paura di fare la medesima fine accompagnò Hill fino all’ultimo giro: “Camminavo sulle uova, cercando di vincere alla velocità più bassa possibile e cercando di essere gentile con il motore. Quando la gara terminò, la prima cosa che chiesi a Chiti quando arrivai ai box fu, ‘Come sta Trips?’ Capii in un istante, solo dallo sguardo di Carlo, che Trips era morto, anche se non me lo disse, e voleva solo portarmi sul gradino del vincitore per gioire della vittoria.”

Il regolamento del ’61 stabiliva che per la vittoria del campionato andavano conteggiati i cinque migliori risultati: la sfida appassionante tra Phil Hill e Von Trips terminava a favore del primo per 34 punti contro 33. “Potrebbe suonare folle adesso, ma in qualche modo mi sentivo molto coinvolto nella morte di Trips. Non lo ero, ovviamente, ero solo un altro pilota di un’altra macchina.” Gli Stati Uniti avevano il loro primo campione del mondo di Formula 1.

La gara di chiusura del campionato era il Gran Premio degli Stati Uniti a Watkins Glen, ma ovviamente la Ferrari, ancora colpita dal lutto per la morte di von Trips e con il campionato piloti e la coppa costruttori in tasca, non partecipò. Phil Hill rimase contrariato da quella forzata assenza dal Gran Premio di casa, proprio nel momento di suo maggior successo. Non fu l’unica delusione in quel periodo: di lì a poco, infatti, la Ferrari avrebbe abbassato l’ingaggio a tutti i piloti. Un’imposizione cui Ginther decise di non sottostare, andandosene alla BRM.

Nonostante la tragedia accaduta, i successi nelle corse avrebbero dovuto portare serenità a Maranello. Si innescò, invece, un periodo di forti attriti tra dirigenza e proprietà, che poi ogni protagonista visse e raccontò a maniera sua, rendendone ancora più complicata la comprensione. La stagione dei veleni sfociò nella separazione tra la Ferrari e tutti e otto i suoi direttori, compreso Chiti. Al suo posto fu promosso il giovane ingegnere Mauro Forghieri.

Il cambiamento nella direzione tecnica portò comunque a un rallentamento dell’attività progettuale, proprio in un momento in cui le squadre inglesi avevano fatto un consistente sforzo per recuperare i ritardi accumulati nel cambio regolamentare.

Per esempio la BRM aveva una nuova macchina, la P578 e un nuovo motore, un 8 cilindri a V di 90° che era stato disegnato per andare fino a 11.000 giri/min ed erogare una potenza superiore ai 190 CV. La Lotus, invece, mise in campo una nuova monoposto rivoluzionaria, la 25, con un telaio monoscocca in acciaio stampato, più rigido e leggero dei tradizionali telai tubolari, affidata a Jim Clark e a Trevor Taylor.

La Cooper non era più la corazzata del ‘59 e ‘60, ma poteva rappresentare ancora un pericolo, nonostante una capacità di innovazione inferiore a quello delle due maggiori rivali inglesi.

Anche la Porsche aveva deciso di cambiare passo, schierando a stagione già avanzata la 804 progettata da Hans Honich e Hans Mezger, e dotata di un nuovo motore 8 cilindri boxer. Come piloti ancora Gurney e Bonnier.

In Ferrari si parlava di un nuovo 6 cilindri a V di 120° con distribuzione a quattro valvole per cilindro, accoppiato ad un nuovo cambio a 6 marce, che BRM e Lotus avevano già. Alla fine si fece solo il nuovo cambio e per il 1962 si partì con la macchina vecchia. I piloti ufficiali per la Formula 1 erano Hill, Baghetti e Ricardo Rodriguez, affiancati talvolta da un’altra giovane promessa dell’automobilismo italiano e rivale storico di Baghetti, Lorenzo Bandini, e dal belga Willy Mairesse. I risultati migliori li ottenne il campione del mondo in carica, con un terzo posto al Gran Premio d’Olanda, un secondo a Montecarlo, grazie al ritiro di tutti i principali protagonisti della corsa e ancora un terzo in Belgio. A peggiorare la situazione ci furono i duri scioperi dei metalmeccanici in Italia, che impedirono la preparazione delle macchine per il Gran Premio di Francia e per gli ultimi due appuntamenti della stagione: una lunga trasferta tra Stati Uniti e Sud Africa.

Al Gran Premio di Germania si videro i primi risultati della nuova gestione tecnica affidata a Forghieri: la 156/62P era un’evoluzione della “Sharknose” con modifiche al telaio, una sezione più stretta, un abitacolo che permetteva una posizione più sdraiata e la guida a braccia tese, seguendo la moda lanciata dalla Lotus 25 di Jim Clark. Il celebre muso, che aveva caratterizzato in maniera tanto marcata la 156, fu eliminato in favore di uno con presa d’aria tronca.

La macchina debuttò con Bandini, che al Nurburgring non andò oltre il 18° posto in qualifica e in corsa si ritirò al 4° giro per un’uscita di pista. Ributtata nella mischia a Monza, questa volta con Willy Mairesse, si qualificò al decimo posto e tagliò il traguardo in quarta posizione: un po’ di luce in fondo al tunnel. La 156/62P fornì poi la base per la 156/63 dell’anno successivo, che rilanciò le quotazioni Ferrari.

Qualche soddisfazione in più venne dalle corse fuori campionato: ad aprile Mairesse vinse il IV° Gran Premio di Bruxelles; a Pau Rodriguez si piazzò secondo alle spalle della Lotus del “vecchio” Maurice Trintignant. Phil Hill fu terzo alla Aintree 200 davanti a Baghetti. Il Gran Premio di Napoli sorrise ancora una volta alla Ferrari, con Mairesse vincitore davanti ad un sempre più consistente Lorenzo Bandini, che in seguito centrò il successo al 1° Gran Premio del Mediterraneo, davanti a Baghetti.

Sarebbe facile dire che la 156 aprì un nuovo ciclo per la Ferrari, se si considera l’innovazione del motore centrale, ma a ben vedere forse ne chiuse uno vecchio, nato nella seconda metà degli anni ’50, quando era iniziata una gestione tecnica che aveva avuto come risultato due mondiali (1958 e 1961) e la transizione dal propulsore anteriore alla nuova impostazione.

Gli otto direttori della Ferrari se n’erano andati nel novembre del 1961, e gli ultimi refusi di quella gestione lasciarono il cavallino alla fine della stagione ’62: Hill e Baghetti andarono a naufragare nella fallimentare esperienza ATS, dove Chiti li aveva portati. La 156, con i suoi tipici cerchi Borrani, che richiamavano in maniera irresistibile il passato, era una monoposto ormai vecchia.

Il nuovo bussava alla porta: a un giovane direttore tecnico con idee fresche, Mauro Forghieri, a giovani piloti, come Lorenzo Bandini e il “figlio del vento”, il motociclista John Surtees, toccava scrivere il primo autentico ciclo Ferrari degli anni ’60.

Stefano Costantino

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