Le dolci colline delle Langhe (nord-ovest dell’Italia), rese famose dai vigneti e dalle piantagioni di noccioli, sono lo stupendo contesto naturale nel quale è nato e cresciuto uno dei più grandi piloti dell’automobilismo italiano, uno dei pochi ad aver raggiunto il successo senza poter contare su munifici sponsor di tabacco, di petrolio o di caffè. Un professionista che ha saputo affrontare sfide sempre nuove, vincendo al di qua e, soprattutto, al di là dell’Oceano, conservando nondimeno l’atavica fierezza del “langhetto” e l’amore per la sua terra d’origine. Un uomo che all’indomani della vittoria di Sears Point nel 2000, ha osservato come i vigneti di Napa che circondavano il circuito gli ricordassero quelli di casa sua a Santo Stefano Belbo. Un italiano di nome "Dindo" Capello.
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Nato ad Asti il 17 giugno 1964, ma da sempre residente a Santo Stefano Belbo, Rinaldo Capello, detto Dindo, ha iniziato la propria attività di pilota nel karting, per poi passare alla Formula Abarth nel biennio 1983-84, e alla Formula 3 dal 1985 al 1989, categoria nella quale ha ottenuto la vittoria nel prestigioso GP Lotteria di Monza. Agli inizi degli anni '90 partecipa al Campionato Italiano Turismo (campione italiano gruppo A proprio nel 1990) e successivamente al Superturismo, dove si laurea campione italiano nel 1996 con la Audi A4 quattro, dopo essere giunto secondo l’anno precedente alle spalle di Emanuele Pirro.
I risultati fin lì ottenuti e la stima di cui gode tra i responsabili Audi gli aprono, nel 1999, le porte del progetto Le Mans, grazie al quale parteciperà negli anni successivi alle più importanti gare Endurance in Europa e negli Stati Uniti. Tra le sue vittorie più importanti si possono annoverare tre “24 ore” di Le Mans (2003-'04-'08), quattro “12 ore” del Sebring (2001-'02-'06-'09), cinque Petit Le Mans (2000-'02-'06-'07-'08) e due campionati American Le Mans Series (2006-'07).
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Dietro ad ogni pilota c’è la storia di una famiglia legata o appassionata di automobilismo. In che contesto famigliare é cresciuto Dindo Capello?
Il primo a legarsi al mondo dei motori fu mio nonno che, in anni nei quali le macchine erano ancora un lusso che si potevano permettere in pochi, decise di acquistare un certo numero di camion per aprire un’azienda di trasporti. Durante la guerra gli venne portato via tutto e così, agli inizi degli anni ’50, dovette ricominciare da capo aprendo, tra l’altro, anche un distributore di benzina Elf con annessa officina per rifornire e riparare i propri mezzi.
Questo legame proseguì poi con tuo padre?
Soltanto in parte! Mio padre studiò per diventare commercialista, ma mantenne un’indiscutibile passione per il mondo dei motori, principalmente per la Formula 1. Gli anziani del paese ricordano ancora quando, soltanto quattordicenne, prese il treno da solo per andare a vedere il Gran Premio d’Italia a Monza; erano altri tempi, nei quali certe cose erano ancora possibili! Vi immaginate una cosa del genere oggi?
Sarebbe inimmaginabile, ma in quel modo ebbe l’occasione di assistere alle gesta di piloti rimasti nella storia!
Ne rimase sicuramente colpito, tant’è che, raggiunta la maggiore età, riuscì a farsi mandare al Gran Premio d’Italia invece del responsabile di zona dei distributori Elf; erano gli anni nei quali il marchio francese campeggiava sulle scocche delle vetture di Ken Tyrrell.
Con questo spirito vien da pensare che accolse positivamente la tua scelta di correre.
Preferisco dire che non mi ostacolò! Mio padre era una persona pragmatica e sapeva bene come funzionava il sistema. Ricordo ancora che, dopo i primi buoni risultati in Formula 3, mi ripeté di non farmi illusioni perché, per bravo che fossi, se non portavo con me la “valigia” le possibilità di una brillante carriera erano ridotte al lumicino. D’altronde quelli erano gli anni nei quali alcuni ragazzi spendevano centocinquanta milioni di lire per correre il campionato del mondo, mentre io ricevevo da mio padre 200 mila lire per ogni week-end di gara. Fu sempre lui ad obbligarmi a finire la scuola superiore (Dindo si è diplomato Ragioniere, ndr), barattandola con il permesso e l’appoggio per continuare a correre.
Quale fu la tua prima esperienza alla guida?
Il giorno del mio dodicesimo compleanno, mio padre mi portò alla pista di Nizza Monferrato dove, per la prima volta, ebbi modo di cimentarmi alla guida di un go-kart: dapprima ne guidai uno lento, di quelli a noleggio, poi mi dettero un 100cc, la cui accelerazione mi fece provare una sensazione indescrivibile. Fu in quel momento che capii quale sarebbe stato il mio futuro! Tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, dal calcio al motocross, aveva perso d’interesse e, ogni domenica, chiedevo a mio padre di portarmi in pista per guidare. Ad essere onesti però quella non fu la prima esperienza su di un veicolo a quattro ruote: quando avevo otto anni trovai in un angolo dell’officina di mio nonno la Fiat 500 preparata da Giannini che mio padre aveva comprato appena presa la patente e, con l’aiuto di un meccanico, riuscii a farla partire. Per poterla guidare senza che i miei se ne accorgessero aspettavo che andassero a letto, scendevo in officina e la portavo nel campo da calcio del paese!
Dopo le giornate di prova, arrivarono le prime gare: hai dei particolari ricordi legati al tuo esordio?
Debuttai l’anno successivo in una gara regionale 100cc cadetti sulla pista di Viverone: fu un’esperienza bellissima perché partii dalla seconda fila e arrivai quarto davanti a gente che aveva molta più esperienza di me. Sui kart continuai per altri quattro anni con buoni risultati, ma mi mancavano i soldi e così non ebbi modo di partecipare ai campionati mondiali ai quali potevano iscriversi piloti che in Italia battevo regolarmente. D'altronde io andavo alle gare con il kart sul tetto della macchina e, spesso, senza neppure un meccanico. L’unica possibilità, a quel punto, era quella di passare alle macchine.
Come avvenne questo passaggio?
Fu merito di Gianfranco Palazzoli che mi convinse a iscrivermi alla scuola federale Csai di Misano, dove guidai le Alfa Gtv e le vetture di Formula 3. Alla fine dei sei giorni di corso gli istruttori insistettero affinché facessi di tutto per continuare a correre. In quella circostanza ebbi la fortuna di incontrare Angelino Ravaglia che mi dette l’occasione di correre in Formula Abarth senza dover garantire un apporto economico. Furono due stagioni nel corso delle quali alternai prestazioni eccellenti a risultati non sempre all’altezza, ma mi consentirono di accumulare molta esperienza che, forse, non avevo maturato appieno nei kart. Con 50 concorrenti in pista ad ogni gara, il numero di incidenti che mi videro protagonista fu abbastanza alto, ma l’unico vero errore che commisi fu quello al Mugello quando, al primo giro e ancora a gomme fredde, cercai di fare la curva dell’Arrabbiata in pieno, finendo rovinosamente fuori pista. Li mi vergognai davvero! Poi però arrivarono anche i buoni piazzamenti e la vittoria.
A questo punto della tua carriera era ipotizzabile il passaggio alla Formula 3, ma iniziasti il 1985 ancora in Formula Abarth ottenendo due pole position consecutive.
In effetti partecipai alle prime due gare del campionato completamente demotivato in quanto consideravo completato l’apprendistato in quella categoria. Durante l’inverno avevo avuto modo di provare la Formula 3 del team Pre.ma Racing e avevo subito capito che quel tipo di vettura si adattava alle mie caratteristiche di guida; ancora una volta difettavo di budget e dovetti iniziare l’anno in formula Abarth. Fortunatamente però la squadra mi chiamò per un nuovo test sul circuito di Misano a stagione iniziata e i tempi che feci registrare convinsero i responsabili a darmi una macchina per il prosieguo del campionato, anche se meno performante rispetto a quelle dei miei compagni di squadra. Riuscii comunque ad ottenere la Pole all’esordio e, a fine anno, quando mi dettero la vettura nuova, ottenni pole, vittoria di batteria e secondo posto finale dietro ad Alex Caffi.
Restando in tema di Formula 3, gli anni successivi ti videro al centro del mercato, tant’è che nel 1987 riuscisti ad approdare alla Coloni, che allora era il team italiano più forte.
Fu un periodo molto strano, nel quale mi sembrava che tutto dovesse andare storto. Nel 1986 dovevo essere la prima guida della Pre.ma, tant’è che rifiutai addirittura un’offerta di Pavanello ma, alla fine, il team mi preferì Giovanna Amati che portava con se molti soldi. Fui salvato da Ferdinando Ravarotto, l’uomo che aveva lanciato Piquet, il quale mi offrì una vecchia Ralt con la quale riuscimmo a toglierci qualche soddisfazione e arrivammo sesti in campionato. L’anno successivo, non ascoltando i consigli di mio padre, accettai l’offerta di Coloni, il team per il quale tutti avrebbero voluto correre; invece, un po’ perché si stava preparando il debutto in Formula 1, un po’ perché la squadra perse uno dopo l’altro i propri agganci in seno alle ditte fornitrici, mi ritrovai a correre con un telaio Reynald tutt’altro che competitivo e con un budget ridicolo che mi impedirono anche solo di ben figurare. Ancora oggi credo sia stato lo sbaglio più grosso di tutta la mia carriera, quello che probabilmente pregiudicò il mio futuro nelle formule.
L’anno successivo, nonostante non avessi grandi motivazioni dopo una stagione così difficile, ritornasti dal team di Ravarotto, raccogliendo i migliori risultati della tua carriera in Formula 3.
Alla fine dell’87 stavo vivendo un periodo di crisi e posso solo ringraziare “san Ravarotto” che mi riprese con lui per la stagione successiva. I risultati di quell’anno probabilmente non cambiarono la mia carriera, ma mi dettero grandi soddisfazioni e soprattutto mi risollevò il morale. In particolare ricordo il Gran Premio di Monaco, nel quale, nonostante mi fossi qualificato soltanto diciannovesimo a causa di un filo della batteria che andava a massa, in gara riuscii ad agguantare il quarto posto finale grazie ad una serie di sorpassi mozzafiato, ottenendo tra l’altro il giro più veloce. Senza dubbio resta la mia gara più bella! Poi arrivò la vittoria al Gran Premio Lotteria di Monza dove, dopo aver battagliato a lungo con Mauro Martini per la terza posizione, approfittai di una toccata all’ultimo giro tra Naspetti e Morbidelli per salire sul gradino più alto del podio. Anche l’anno successivo corsi qualche gara in Formula 3 ma, dopo aver visto naufragare il progetto Pavesi per la F3000, il mio futuro sulle monoposto era ormai compromesso.
Scorrendo le classifiche delle formule propedeutiche di quegli anni, sia a livello italiano che internazionale, si ha la sensazione che non premiassero necessariamente i piloti migliori. Per fare un esempio, i protagonisti di Monaco 88 furono Bertaggia e Artzet mentre tra gli sconfitti spiccano i nomi di Hill, Herbert e Alesi.
E’ assolutamente vero! Il problema della Formula 3 di quegli anni è che vinceva sempre il pilota che correva per la squadra che poteva vantare gli agganci migliori e questo, a parer mio, ha contribuito al fallimento della categoria. Ricordo ancora che, nel viaggio verso Hockenheim per partecipare al F3 Eurochallenge, due responsabili dell’Alfa Romeo dissero meraviglie di un pilota francese: caso volle che la domenica dominasse la gara facendo registrare le più alte velocità di punta, nonostante viaggiasse con gli alettoni carichi. Anche più strano è il fatto che, dopo qualche fugace apparizione in F3000, di lui non si sia saputo più nulla.
Chiusa la tua carriera con le monoposto, sei passato al turismo italiano, a quelle che hai definito le macchine con il baule: un cambiamento che inizialmente non ti soddisfece più di tanto.
Arrivai al turismo a seguito di un’offerta fattami da Emilio Radaelli, responsabile dei programmi sportivi Volkswagen e Audi in Italia, ma devo riconoscere che inizialmente mi sembrò un ripiego: non mi rendevo ancora conto che la mia rinascita sarebbe partita proprio da lì. Corsi con una Volkswagen Golf GTI conquistando il titolo al debutto, mentre nei due anni successivi partecipai al campionato Superturismo con la stessa macchina ottenendo buoni risultati. Nel ’92 mi ritrovai a correre anche in Porsche Carrera Cup per sostituire Alex Zanardi dopo che questi aveva avuto un brutto incidente: su cinque corse che disputai, ottenni 2 Pole Position e una vittoria.
Nel 1994, dopo aver assaporato la possibilità di correre nel superturismo con la BMW già nel '92, arrivò la firma con l’Audi Sport Italia per correre il Superturismo italiano con la Audi 80 quattro ruote motrici.
Quello fu il momento in cui le cose cominciarono a girare nel verso giusto: nel settembre ’93 l’Audi era venuta a Monza per preparare il campionato mondiale turismo che si sarebbe corso proprio sul circuito brianzolo e, destino volle, che Frank Biela, pilota di punta della squadra, si infortunasse alla vigilia. Rimasti con il solo Stuck a provare, i responsabili chiesero a Radaelli se potesse mettere a disposizione i suoi due piloti. Con Beppe Gabbiani raggiunsi l’autodromo dove provai per due giorni sia la vettura base che quella evoluzione. Ufficialmente doveva finire tutto lì ma, inaspettatamente, pochi mesi dopo la Audi decise di iscrivere le proprie macchine al campionato italiano per l’anno successivo. Si decise inoltre che un’auto sarebbe stata iscritta dalla Audi Sport Italia che scelse proprio me come pilota; ovviamente il mio contratto prevedeva che dovessi fare da spalla ai piloti dell’Audi Motorsport, ma la cosa non mi preoccupava troppo. Quello che contava era che fossi entrato a far parte di un progetto ambizioso.
Due anni a fare da secondo a Pirro e poi, complice il suo passaggio al campionato tedesco, la promozione a prima guida per la stagione 1996. Una stagione nella quale ti sei aggiudicato il campionato all’ultima gara dopo che, nella prima parte del campionato, sembrava non dovessi avere rivali.
Per il ’96 firmai il mio primo contratto biennale con Ingolstadt e il campionato iniziò davvero bene, con 6 successi nelle prime 8 gare. Poi la Bmw, improvvisamente, raggiunse prestazioni velocistiche tanto impressionanti quanto incompatibili con le regole e Naspetti e Cecotto recuperarono in classifica, tanto che Emanuele divenne leader alla penultima gara. Alla vigilia dell’ultimo appuntamento, da disputarsi a Vallelunga, Radaelli dichiarò di voler far ricorso contro i cablaggi della BMW in quanto, probabilmente, era stato raggirato il regolamento, cosa della quale ebbi conferma anni dopo proprio da un meccanico della casa bavarese. La BMW portò in pista ben sette vetture, mentre l’Audi affiancò a me e al mio compagno Yvan Muller, Pirro e Peter, che peraltro rimasero fuori dalle prime posizioni in entrambe le gare. In prova riuscii a far registrare il secondo tempo e in gara 1 finii secondo davanti al mio rivale per il titolo. In gara 2 le cose andarono anche meglio, con Naspetti penalizzato con uno stop and go per aver urtato Yvan ed io che mi godetti gli ultimi giri di pista con la consapevolezza di essermi pienamente meritato il titolo, a dispetto di chi era andato oltre il lecito a livello regolamentare.
Nei due anni successivi hai continuato l’avventura nel Superturismo italiano con l’Audi A4 ottenendo qualche bella vittoria, ma, a differenza dei tuoi vecchi compagni di squadra non andasti a correre nei campionati esteri.
A dire il vero a me sarebbe piaciuto molto correre nel campionato tedesco, ma ormai era partito il programma Audi prototipi per Le Mans e cominciammo tutti a concentrarci su quello. Nel Superturismo italiano non riuscimmo a ripetere i risultati degli anni precedenti perché i regolamenti divennero sempre più anti –Audi, tanto che nel 1998 venne addirittura bandita la trazione integrale.
A Le Mans arrivasti però nel 1998 con una McLaren F1 GT2 iscritta dal dottor Thomas Bscher.
Sì, l’Audi decise che sia io sia Biela dovevamo fare esperienza in previsione dell’anno successivo e, per non metterci troppa pressione, organizzò un debutto “camuffato”, anche se Frank non poté correre per motivi famigliari e il suo posto venne preso da Pirro. In qualifica riuscimmo ad ottenere il ventesimo tempo e in gara ci ritirammo per un errore del proprietario della macchina quando eravamo saldamente quarti dietro a Porsche e Nissan.
Quali furono le tue impressioni all’esordio sulla pista della Sarthe?
Direi che cambiò tutto molto rapidamente! Ricordo che quando entrai in pista per i primi giri, mi venne da chiedermi chi me l’aveva fatto fare di essere lì: arrivai in pieno rettilineo dell’Hunaudieres, vidi che il tachimetro digitale segnava 305 km/h e, improvvisamente, avvertii lo spostamento d’aria dovuto ad un Toyota che mi aveva appena superato. Una sensazione piuttosto sgradevole! Poi però, dopo un paio d’ore, incominciai a capire che quel tipo di macchina e quella pista mi piacevano, ottenendo anche il giro più veloce fatto registrare da un McLaren F1 su quel circuito.
L’anno successivo arrivò la Audi R8R con la quale hai corso a Sebring e Le Mans ottenendo un terzo e un quarto posto.
Quella fu la mia prima stagione sui prototipi e i risultati ottenuti furono incoraggianti, soprattutto se si considera il livello della macchina, una sorta di laboratorio: d’altronde anche per Audi era un’esperienza tutta nuova e nessuno puntava a risultati eclatanti. In gara poi i problemi si susseguirono a tal punto da costringerci a cambiare ben tre volte il cambio, l’ultima delle quali optammo per la versione manuale; fu in quelle condizioni che riuscii a far registrare il miglior tempo sul giro per la R8R.
Si arriva così al 2000, quando l’Audi presentò quella macchina da guerra che era la R8. Nello stesso anno incominciò la tua avventura nell’American Le Mans Series (ALMS).
L’esperienza accumulata l’anno precedente consentì ad Audi, in collaborazione con Dallara, di progettare una macchina che rimase vincente per ben sette anni e permise a noi piloti di collezionare molti successi in America, dove si correva il campionato prototipi più importante del mondo. Per me e McNish fu un anno che dividerei in due: fino al Nurburgring i risultati furono meno brillanti del previsto, poi, a partire da Sonoma infilammo una serie di sei vittorie su otto gare che ci consentì di classificarci ai primi due posti nella classifica finale. Anche Le Mans non andò troppo male, se si considera che riuscii a condurre la gara per un breve periodo prima di dover rientrare ai box per un problema al cambio, finendo la gara al terzo posto.
Quell’anno proprio al Nurburgring sei stato protagonista di un episodio particolare.
Direi tragicomico! Partito dalla Pole position, la mia prima sui prototipi, persi qualche posizione al via a causa delle gomme fredde ma, ben presto, recuperai posizioni fino a riportarmi in testa con un bel sorpasso ai danni di Letho: alla staccata successiva, però, mi ritrovai con il pedale del freno bloccato da qualcosa. Dopo qualche attimo di confusione, mi resi conto che si trattava del poggiatesta, staccatosi e scivolato sotto la pedaliera. Fu comunque una gara sfortunata perché, più tardi, Allan ebbe un incidente abbastanza brutto che ci costrinse al ritiro.
Anche l’anno successivo le cose incominciarono molto bene con una serie di cinque vittorie in altrettante prove dell’ALMS e la Pole a Le Mans ma, da metà campionato, qualcosa smise di funzionare.
Al di la delle vittorie ottenute, il 2001 fu un anno difficilissimo per me, in quanto andai in crisi a livello fisico e mentale a causa del fuso orario e corsi sempre sotto i miei standard. Anche a Le Mans, nonostante la Pole e il secondo posto finale, non riuscii mai a trovare il giusto feeling con la vettura, prendendomi anche un paio di spaventi sotto la pioggia. Le difficoltà continuarono anche nell’anno successivo, nonostante un’altra Pole a Le Mans e cinque vittorie nell’ALMS. Il fatto era che oltre a sentirmi spesso stanco, avvertivo improvvisi giramenti di testa che mi limitavano e per risolvere i quali arrivai a sottopormi ad un operazione al naso e ad effettuare continue ispezioni timpaniche. Ma alla fine i veri benefici li ottenni soltanto quando decisi di mettermi nelle mani di Roberto Manzoni, il preparatore atletico di Rocca e della Compagnoni.
Nel 2003 arriva finalmente la prima vittoria a Le Mans con la Bentley Speed 8: una vittoria prestigiosa che ti consentì di succedere a Barnato e ai famosissimi Bentley’s boys.
Quell’anno la Audi decise di investire sul marchio Bentley ed io, insieme a Kristensen, fui scelto tra i piloti che dovevano portare la vettura al successo. La gara fu una vera passerella, anche se, prima della partenza, ero molto preoccupato perché l’assetto era totalmente cambiato rispetto alle qualifiche e il posteriore della macchina spanciava sui lunghi rettilinei; sulla griglia i meccanici furono costretti ad un lavoro extra per risolvere quel problema. Con la Bentley avevamo partecipato anche alla 12 ore del Sebring, ma un problema tecnico ci aveva relegato al fondo dello schieramento, dal quale recuperammo fino al quarto posto.
Finita l’esperienza Bentley sei ritornato in Audi con il team Goh, con il quale hai partecipato alla prima edizione della Le Mans Series (LMS), oltre ovviamente alla maratona francese che conquistasti per la seconda volta.
Fu un anno al di sopra delle aspettative dal momento che il team giapponese per il quale correvo aveva un budget decisamente inferiore a quello del team inglese e di quello americano che si dividevano le altre R8. In LMS, nonostante non si sia ottenuta alcuna vittoria, siamo arrivati secondi in campionato grazie a due secondi e un terzo posto mentre, alla 24 ore, dopo un problema ai freni che mi costrinse ad un fuoripista alla Dunlop, approfittammo dei guai altrui per passare al comando con un buon margine. L’unico rischio lo abbiamo corso al mio ultimo pit-stop, quando la macchina prese fuoco per un errore del meccanico addetto al rifornimento: quel giorno corsi un gravissimo rischio perché, dopo aver cercato di uscire dalla macchina, mi re-infilai nell’abitacolo per riprendere la gara ma, in quel frangente, non riuscii a bloccare una cintura, senza la quale corsi un intero turno di guida!
Dopo un anno dedicato al DTM con il team Joest, sei ritornato ai prototipi nel 2006, aggiudicandoti il titolo della ALMS con la Audi R10 a motore diesel, mentre a Le Mans un problema tecnico vi tolse ogni possibilità di vittoria.
L’anno del DTM fu povero di risultati sia per me che per i miei compagni di squadra, in quanto partecipavamo con la versione dell’anno precedente e mancavamo totalmente di esperienza. Mi venne offerta la possibilità di correre a Le Mans con la R8 del team Oreca ma, alla fine, lo sponsor pretese che l’equipaggio fosse composto esclusivamente da piloti francesi e, detto sinceramente, con il senno di poi, fu meglio così. L’anno successivo, abbandonato il DTM, incomincia l’avventura del diesel, con il quale ottenni la vittoria al debutto. Vincere quel Sebring rappresentò una gioia incredibile perché, in qualche modo, avevo scritto il mio nome nella storia dell’automobilismo. Bisogna poi ricordare che, dopo quella gara, partecipammo alle tre prove successive del campionato ALMS con la R8, che portammo alla vittoria sia a Huston che a Lime Rock, ultima gara prima del suo definitivo pensionamento a vantaggio della R10. La Le Mans di quell’anno invece fu piuttosto frustrante: dopo aver ottenuto la Pole position, la terza in carriera, in gara accusammo un problema all’alimentazione che ci costrinse ad una sosta di più di 20 minuti. Alla fine arrivammo terzi.
Il 2007 è l’anno del tuo secondo titolo in ALMS, ma anche della grande delusione di Le Mans.
Semplicemente indescrivibile! Ancora oggi, quando ci penso provo una sensazione che è un misto tra rabbia e incredulità: perdemmo una gara meritatissima a causa di un dado! E pensare che avevamo quattro giri di vantaggio, un qualcosa che a Le Mans, a metà gara, non si vedeva da anni.
Un vero peccato perché fino a quel punto era andato tutto alla perfezione.
Per me resta la migliore cha abbia mai corso! In partenza, sotto una leggera pioggia, ero riuscito a portarmi in testa approfittando di un lungo di Bourdais alla Dunlop, dopodiché non avevamo più ceduto la prima posizione. Sia io che i miei compagni andavamo velocissimi senza compiere errori. Poi arrivò il pit-stop con il problema nella sostituzione alla ruota posteriore e, successivamente, la perdita della medesima a 200km/h alla curva Indianapolis. Li presi un bello spavento!
n qualche modo siete stati ricompensati l’anno successivo, con l’inattesa vittoria a Le Mans davanti alle favorite Peugeot.
Onestamente non la considero una ricompensa. In quel caso si trattò di una condotta di gara ineccepibile sia dal punto di vista del pilotaggio che della strategia, maturata anche dalla scelta di optare per un assetto misto che ci consentì di recuperare quando incominciò a piovere.
Sempre in quell’anno hai vinto anche la 1000km di Silvestone e Petit Le Mans, un buon modo per chiudere l’esperienza con la R10.
Due belle vittorie per due ragioni differenti: la prima perché raddrizzò la stagione LMS che fino a quel punto non era stata esaltante, la seconda perché corsi a fianco di Pirro, alla sua ultima gara in Audi.
Con il 2009 si entra nell’era R15, la macchina nata per battersi ad armi pari con la Peugeot. Il progetto parte nel migliore dei modi con la vittoria a Sebring, poi qualcosa non va per il verso giusto e a Le Mans non riuscite a contrastare la Peugeot.
A Sebring la macchina si è comportata benissimo, soprattutto se si considera che lo sviluppo era ancora indietro a causa delle condizioni climatiche che avevamo trovato durante i test invernali. Il bello di quella vittoria è stato che per tutta la gara abbiamo battagliato con la 908HDi, compiendo dei sorpassi bellissimi e tenendo un ritmo indiavolato. Il problema si è avuto subito dopo, quando nella fase di sviluppo la macchina, invece di migliorare, ha cominciato a presentare tutta una serie di problemi, risolti solo versa la fine del 2009 quando, a Petit Le Mans abbiamo di nuovo combattuto ad armi pari con i nostri avversari.
A questo punto non resta che chiederti di fare una previsione per il 2010.
Per quest’anno sono molto fiducioso perché la macchina nasce da un progetto molto valido e abbiamo capito al 95% cosa non ha funzionato nella scorsa stagione; l’obiettivo è quello di riportare l’Audi alla vittoria nella 24 ore di Le Mans e conquistare la Le Mans Intercontinental Cup e, conoscendo la mentalità della casa di Ingolstad, nulla sarà lasciato al caso.
Le foto pubblicate in questo articolo sono di proprietà di Dindo Capello, che ne ha permesso la pubblicazione. Per ulteriori immagini si rimanda al sito ufficiale www.dindocapello.com
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