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Fino alla fine degli anni '60 la Porsche aveva incarnato nel mondo delle corse la parte di Davide. Quando il terreno e le condizioni lo avevano permesso, aveva inferto colpi micidiali ai vari Golia di turno e sopratutto alla Ferrari, e lo aveva fatto con vetture che non puntavano sulle massime potenze e su una ricerca esasperata, ma con macchine semplici, leggere ed affidabili, con motori piccoli che mantenevano un legame molto forte con la produzione. Nella prima ventina di anni della sua storia la Porsche aveva messo insieme un notevole palmares di vittorie assolute, ma sopratutto di classe. Tuttavia, era rimasta lontana da risultati eclatanti su importanti terreni come Le Mans, dove occorrevano ben altri mezzi. Una constatazione sempre più stretta ai vertici della casa tedesca, ormai diventato un marchio riconosciuto che occupava quote importanti nel mercato mondiale delle Gran Turismo. L'azienda con una forte impronta artigianale era diventata un'industria e logicamente anche le ambizioni sportive andavano dimensionate alla nuova realtà. In un certo senso, alla fine di quel decennio il nostro Davide subì quella che oggi si chiamerebbe una crisi d'identità, che lo portò a sognare di diventare come Golia: un concentrato di potenza bruta. Il primo passo fu la 908, detta anche la "bicicletta" per il suo telaio di tubi sottili. Mossa da un otto cilindri boxer raffreddato ad aria, la vettura di Stoccarda era concepita sulla base del regolamento per vetture sport fino a 3.000 cm3. Ma dal '70 sarebbe partita la nuova classe regina che permetteva un'espansione della cilindrata fino a 5 litri, con ricadute pesanti sulle potenze erogate dai propulsori e sulle dimensioni della vettura. Il mondo delle corse di durata stava per essere invaso da autentici mostri che avrebbero infranto tutti i precedenti record e la Porsche, per non farsi sorprendere, partì con abbondante anticipo sugli avversari. Nell'inverno tra il 1968 ed il 1969 Ferry Porsche diede il via alla progettazione della 917, affidandone la supervisione a suo nipote Ferdinand Piech. La realizzazione del motore fu portata avanti da Hans Metzger, che già aveva lavorato al 3 litri della 908. La scelta dell'architettura portava la Porsche a sfidare direttamente la Ferrari, che aveva fatto del dodici cilindri un segno d'identità al pari del cavallino sul cofano, ma le altre soluzioni si legavano alla tradizione della casa di Stoccarda. Dunque, raffreddamento ad aria forzata, assicurata dalla consueta grossa ventola posta sulla parte superiore del motore e, ovviamente, configurazione boxer. Per questione di costi si decise di ottenere la nuova unità dall'unione di due monoblocchi in lega leggera del sei cilindri montato sulla 911 R da 2,2 litri. Ciò portò la Porsche a non sfruttare al limite il nuovo regolamento perché la cilindrata totale così ottenuta era di soli 4.500 cm3. L'utilizzo di materiali all'avanguardia e leghe speciali permise di limitare il peso del "mostro" a 260 Kg: così l'albero, composto da due parti fucinate, era in acciaio leggero, le bielle, sempre forgiate, in titanio e le testate in lega leggera di alluminio, mentre i pistoni erano sottoposti a un processo di cromatura. Lo schema della distribuzione si componeva di due alberi a camme in testa per bancata, comandati da una cascata di ingranaggi ed agenti tramite punterie a tazza sulle due valvole di ogni cilindro. Tre pompe elettriche rifornivano il sistema d'iniezione meccanica della Bosch, sviluppato sulle esigenze della Porsche e particolarmente complicato da un reticolo di tubicini sottilissimi. Sempre della Bosch i due magneti, uno per bancata, che assicuravano l'accensione nei cilindri. Il nuovo possente motore erogava la bellezza di 520 CV a 8.000 giri/min con una coppia di 50 Kgm a 6.800 giri al minuto, dunque piuttosto in alto sul regime di utilizzo. Da ogni litro di cilindrata i tecnici tedeschi erano riusciti a spremere ben 115 CV. Per il cambio i tecnici Porsche scelsero unità longitudinali sincronizzate a quattro o cinque marce a seconda dei circuiti, concepiti e costruiti in proprio. Così come per il motore, il raffreddamento era affidato essenzialmente ai flussi d'aria generati da prese d'aria sul cofano e diretti sulle alettature della scatola da condotti appositamente studiati. Un differenziale autobloccante aiutava a gestire la potenza del motore, mentre la frizione era del tipo multidisco a secco. Il telaio sfruttava una rete di tubi sottili in una lega speciale su cui la Porsche manteneva il massimo segreto. La costruzione era particolarmente complessa nel posteriore dove motore e cambio non erano in grado di assolvere alcuna funzione portante. Dunque, i progettisti si erano tenuti lontano dal fascino della monoscocca o da sperimentazioni particolarmente innovative, come l'honeycomb provato brevemente dalla Ford con risultati contrastanti. Lo stesso Piech spiegò che la monoscocca non garantiva ancora gli stessi valori di rigidità torsionale e presentava una gestione più complessa: "Se si danneggia una monoscocca la riparazione è difficile e costosa in termini di tempo. Se si danneggia un telaio tubolare basta tagliare via il pezzo rovinato e saldare un tubo nuovo." Si ottenne così una costruzione leggera (47 kg) con valori di rigidità torsionale pari a 5.000 - 6.000 Newton/grado. Il sistema di sospensioni si basava su un semplice schema a doppi triangoli, con ammortizzatori Bilstein accoppiati a molle elicoidali. I quattro freni a disco erano azionati da un doppio circuito per scongiurare guasti dalle tragiche conseguenze. Insieme al propulsore, il pezzo forte del progetto doveva essere l'accurato studio aerodinamico: le forme della carrozzeria in fibra di vetroresina rinforzata con resina poliestere erano molto morbide e armoniche. Il muso basso si alzava dal centro verso i passaruota, mentre il flusso generato dalla generosa bocca ovale al centro usciva a metà del cofano dopo aver raffreddato il grande radiatore dell'olio. Due prese Naca poco sopra avevano il compito di portare aria ai freni. I fari anteriori erano perfettamente integrati nella superficie della carrozzeria grazie a calotte in plexiglass. Gli aggressivi baffi laterali erano ritenuti molto utili all'epoca per generare carico aerodinamico aggiuntivo, ma furono poi abbandonati in favore di un miglior disegno del cofano. Il grande parabrezza di tipo aeronautico, fortemente convesso, era mantenuto efficiente in caso di pioggia da un complesso tergicristallo a pantografo. La bassissima linea del tetto misurava soltanto 92 cm dal suolo e digradava verso la coda con un lunotto trasparente, che permetteva di intravedere la meccanica ed evacuava calore dal vano motore attraverso le aperture ricavate nel plexiglass. Le porte cercavano di offrire al pilota un accesso abbastanza agevole nell'angusto abitacolo, dove il pilota era collocato quasi in posizione centrale. Ma sopratutto impressionava quella coda lunga e rastremata, caratterizzata da un'ala monoplana, che chiunque fosse in grado di masticare un po' di corse associava ad un unico e mitico evento: Le Mans. Tuttavia, per la maratona francese era in preparazione una versione ancora più estrema, mentre si sperimentavano elementi alari mobili che spesso impensierivano i piloti, autentiche cavie di quegli esperimenti, e facevano storcere il naso alla concorrenza, rappresentando un interpretazione al limite del regolamento. Più avanti nell'anno fu anche studiata una versione spider, che però non ebbe un seguito produttivo. Ovviamente il tutto era concepito per agevolare al massimo l'intervento dei meccanici per la gestione in corsa ed eventuali interventi per riparazioni di emergenza: così i cofani erano ad apertura integrale, il telaio presentava punti per il sollevamento facilmente accessibili e altrettanto lo erano i bocchettoni per il rifornimento del carburante ed il rabbocco dell' olio. Data la tecnologia utilizzata, far correre e curare una 917 rimaneva necessariamente molto complesso: basti pensare che la check list del Gulf Porsche team, cioè in tempi in cui la 917 aveva raggiunto una ragionevole affidabilità, si componeva di qualcosa come 130 punti. Nella primavera del 1969 la 917 fu presentata al Salone di Ginevra per far sognare giornalisti e tifosi. I suoi 4.290 mm di lunghezza per una larghezza di 1.630 mm, un passo di 2.300 mm e le carreggiate anteriore e posteriore rispettivamente di 1.488 e 1.457 mm, le consentivano una prestanza scenica di tutto rispetto. Forse la livrea bianca con bande verdi non era molto eccitante, ma le linee senza compromessi spiegavano abbastanza chiaramente dove la Porsche voleva andare a parare con quel bolide. In concomitanza con la presentazione della vettura, la casa di Stoccarda rese noto il suo programma: l'omologazione, che comportava la costruzione di 25 esemplari funzionanti, era prevista per il 1° maggio di quell'anno, cioè in tempi ristrettissimi e con un impegno finanziario pesante. Il grosso della produzione sarebbe stato poi ceduto a scuderie private ad un prezzo vantaggioso. Costruire la 917 costava alla Porsche circa 305.000 marchi, ma ai clienti veniva venduta a 140.000: lo stesso Piech definì l'operazione "il più grosso regalo pubblicitario che la Porsche abbia mai fatto." La casa avrebbe gestito in proprio alcuni esemplari, affidati a equipaggi di fiducia. Nell'orbita Porsche giravano, infatti, alcuni tra i migliori piloti di durata dell'epoca: gente come "Seppi" Siffert, Rolf Stommelen, Vic Elford e Hans Herrmann. La vecchia 908 diventava un'arma complementare alla 917, necessaria in certe gare come la Targa Florio o la 1.000 Km del Nurburgring, dove le doti di agilità della "bicicletta" erano assai più utili della potenza e delle velocità di punta che caratterizzavano la nuova vettura. Di fatto, la 908 fu obbligata a reggere da sola il gioco ancora per parecchi mesi, nell'attesa che sulla 917 si risolvessero i tanti problemi di gioventù e i calcoli sulla carta dei tecnici iniziassero a tornare anche in pista. A fine aprile la foto dei 25 esemplari schierati per la visita dei delegati F.I.A. fece il giro del mondo, ma dalle parti di Maranello circolavano voci su macchine incomplete e incapaci di qualsiasi moto senza il contributo di "trazione umana". La conseguenza diretta di quelle maldicenze era che i controllori federali non avevano fatto bene il loro lavoro. Purtroppo le corse automobilistiche vivono sui nomi, sui capitali e sulla tecnica di chi costruisce macchine da corsa: a un nome carico di gloria come Porsche non si poteva dire di no. E a suo tempo la stessa Ferrari aveva beneficiato di benevole "distrazioni" e sconti da parte della Federazione. Nello sviluppo della vettura non si trascurò nessun particolare: durante le prime prove in vista di Le Mans si procedette a riempire di aria compressa il telaio tubolare, per evidenziarne eventuali incrinature. In quei primi giri sul circuito francese, la 917 consentì a Stommelen di balzare al comando nella lista dei tempi, facendo registrare 347 km/h di velocità di punta sul rettilineo dell'Hunaudiéres. Nonostante la bella prestazione il pilota tedesco non era del tutto convinto, specialmente per le strane sensazioni comunicate dal telaio. Quando la Porsche decise di schierare la vettura alla 1.000 km di Spa Francorchamp, Siffert fu anche meno diplomatico: la 917 gli permise di conquistare la prima fila, ma si lamentò molto per il comportamento instabile nei curvoni veloci quanto sui lunghi rettilinei. Inoltre, dava noia la posizione troppo esterna della quinta marcia sul selettore del cambio, che induceva spesso i piloti a infilare erroneamente la terza, facendo schizzare i giri motore alle stelle. Per la gara Siffert ripudiò la 917 tornando alla vecchia 908 a coda lunga, che peraltro gli consentì di vincere la corsa. I responsabili Porsche, dopo aver incassato la stroncatura da parte del loro miglior pilota, ci aggiunsero l'amarezza del ritiro per la rottura del 12 cilindri. La prima corsa della 917, affidata all'equipaggio Mitter - Schutz, era durata appena un giro. Al successivo appuntamento del Nurburgring per la 1.000 Km, i piloti Porsche si tennero ben lontani dalla 917, nonostante l'adozione di molle e ammortizzatori più rigidi che dovevano eliminare una parte delle spiacevoli sensazioni provocate alle alte velocità. Tutti restavano aggrappati alla loro 908, anche perché obiettivamente più adatta al tortuoso circuito di 22 km. Così la 917 finì nelle mani di David Piper e Frank Gardner, che non andarono oltre il 10° posto in qualifica e l'8° in gara. Per la cronaca, vinse ancora Siffert con la 908. I punti della vittoria servirono a mettere anticipatamente il sigillo Porsche sul mondiale Marche del 1969. A Le Mans ci si attendeva una pronta rivincita della 917: era o no stata concepita per sbancare questa 24 Ore che la Porsche voleva a tutti i costi? Rigenerata da una nuova sospensione più rigida, la carrozzeria in configurazione coda lunga e con i problemi di vaporizzazione del carburante risolti, la 917 lasciata nelle mani di Rolf Stommelen conquistò agevolmente la pole. Il tedesco fu anche il principale protagonista della prima parte di gara, mantenendo agevolmente la testa finché motore e cambio non iniziarono a cedere. Fu l'inizio di una maledizione che si abbatté sulla Porsche, la squadra che secondo i giornali non poteva mancare questo risultato per i mezzi a disposizione, per l'organizzazione e per la qualità delle vetture. Siffert con la 908 costretto al ritiro, Elford, ormai proiettato in testa alla corsa, in preda a problemi di vaporizzazione del liquido freni e poi definitivamente tradito da una molla della frizione troppo tesa, che aveva mandato in briciole il disco. La superstite 908 di Hermann-Larrousse costretta ad un umiliante lotta con la vecchia Ford GT 40 di Ickx-Oliver, con l'aggiunta di un sorpasso beffa a pochi metri dal traguardo. Al disastro sportivo andava aggiunto il drammatico incidente che aveva visto la Porsche 917 privata di John Woolfe schiantarsi contro le barriere e prendere fuoco. Le fiamme alimentate dalla benzina dei serbatoi appena riforniti divorarono rottami e pilota. E dopo le fiamme vere divamparono quelle figurate dei giornali, che accusarono la Porsche di costruire macchine da corsa instabili e pericolose. Che la 917 fosse una macchina ancora acerba e in determinate situazioni imprevedibile era un dato di fatto, ma andava anche tenuta nel debito conto l'inesperienza di Woolfe, che fino a quel momento aveva corso con macchine nettamente meno potenti e che improvvisamente aveva deciso di compiere un passo forse un po' troppo impegnativo per le sue capacità. Nei giorni precedenti la corsa, Woolfe aveva confessato agli amici di essere terrorizzato da quella vettura e dalle sue prestazioni, ma la paura non bastò a farlo desistere dal suo intento. Per la gara di Watkins Glen furono introdotte ulteriori migliorie agli stabilizzatori anteriori e alla ventilazione dell'abitacolo. Anche gli scarichi presentavano un nuovo disegno che consentiva un minor consumo di carburante. La cura non fruttò risultati apprezzabili nella trasferta americana sopratutto perché i piloti Porsche continuavano a scioperare contro quella creatura così acerba, ma nel successivo appuntamento di Zeltweg si tornò decisamente a sorridere: sul nuovissimo circuito austriaco la 917 fu portata alla vittoria dall'equipaggio Siffert-Ahrens: inizialmente il pilota svizzero doveva correre con la 908, rifiutando per l'ennesima volta la guida dell'ultimo modello, ma una cortese quanto ferma richiesta di Ferdinand Piech lo convinse a cambiare idea: "Signor Siffert, mi potrebbe fare il grande piacere personale di guidare la 917, nonostante tutti i problemi presenti al momento?" Fu un trionfo e non solo per la 917, considerato che undici delle macchine ai primi dodici posti erano Porsche. Soltanto la vecchia Lola di Joachim Bonnier riuscì a impensierire il duo di testa e a spezzare una classifica che per il resto pareva un monomarca. La vittoria non convinse del tutto né la Porsche, né la stampa specializzata. L'esperienza in pista aveva aiutato il reparto corse di Stoccarda a prendere coscienza dei problemi della vettura. Molto era stato fatto, ma il problema aerodinamico restava ancora insoluto. Come stabilizzare la vettura alle alte velocità senza aggiungere troppo carico aerodinamico? Guardare e non vedere, poter risolvere un'equazione con una banale operazione e invece spaccarsi la testa per ore con qualche complicato calcolo. Sembra quasi una storiella zen: un paio di ore di esperimenti sul circuito austriaco, a pochi giorni di distanza da quella vittoria, e un po' di pannelli in alluminio bastarono, infatti, a risolvere tutti i guai. Autore delle modifiche uno specialista della Porsche, Valentin Schaffer, con l'aiuto e i preziosi suggerimenti di alcuni tecnici del John Wyer Automotive che, come si vedrà, stava per assumere un ruolo da protagonista nella storia della 917. La soluzione escogitata non era nuova, ma interpretata in maniera originale: un coda tronca e molto corta che diede origine alla celebre versione "Kurz". Sulla base degli esperimenti di Schaffer, fu proposto un nuovo cofano privato del grande lunotto in plexiglass: i passaruota non assecondavano più l'intero arco delle ruote posteriori, ma fuggivano rettilineamente verso la corta coda, lasciando in vista la parte inferiore del telaio e il cambio. La sezione posteriore risultava inoltre maggiorata per ospitare nuovi pneumatici da 15" anziché da 12". Anche il cofano anteriore fu modificato con la grande bocca centrale affiancata da due prese più piccole, mentre rimaneva invariato il grosso sfogo per l'aria calda proveniente dal vano del radiatore. Ma l'aerodinamica non fu l'unico settore dove si registrarono miglioramenti: i punti di saldatura del telaio erano ora più robusti e, in seguito al tragico incidente di Woolfe a Le Mans, si decise di installare un impianto antincendio. Il motore ricevette giunti delle tubazioni flessibili che offrivano maggiore sicurezza in caso d'incidente. Il cambiamento più radicale riguardò però l'organizzazione dell'attività sportiva: la Porsche rinunciava a gestire direttamente le sue macchine e si affidava esclusivamente a squadre private. Il team prioritario divenne il John Wyer Automotive, artefice del successo del programma Ford GT 40 nel decennio precedente. Per il team manager inglese fu un'autentica fortuna trovare l'appoggio della casa tedesca: esauritasi l'esperienza con la berlinetta americana, che aveva ancora fruttato una vittoria a Le Mans nel '69, si era ritrovato con la sola prospettiva della barchetta Mirage, costruita in proprio e motorizzata con un propulsore Ford da 3.000 cm3. Nonostante i promettenti risultati, era ben chiaro che la Mirage da sola non poteva bastare a mantenere il team al vertice delle corse di durata. L'accordo per la gestione delle Porsche 917 permise anche di trattenere la compagnia petrolifera Gulf nel ruolo di sponsor principale. Il bolide di Stoccarda stava così per assumere la livrea azzurro arancione che l'avrebbe resa celebre e riconoscibile a tutti gli appassionati di corse. Il secondo team prioritario era il Salzburg, che avrebbe imposto alle sue macchine il rosso e il bianco della bandiera austriaca.
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La stagione '70 si presentò al pubblico come l'anno dello scontro tra i cavalli: quello un po' anonimo dello stemma Porsche e l'altro, rampante e nero su uno sfondo sfacciatamente giallo, della Ferrari. A Maranello si era deciso di intraprendere la sfida delle 5 litri con un progetto all'avanguardia che assorbì importanti risorse tecniche ed economiche: lo studio aerodinamico fu affidato a Pininfarina. Il motore era un 12 cilindri a V di 60° che capitalizzava le recenti esperienze in Can-Am, in grado di erogare 580 CV a 8.500 giri/min., sulla carta ben più dei 520 dichiarati dalla Porsche per la 917. Ferrari tuonava per vendicare il flop della 312 P subito l'anno precedente, ma la 512 aveva 9 mesi di ritardo rispetto alla 917. La stagione si aprì con la 1.000 KM di Buenos Aires, gara non valida per il campionato. Con le Ferrari assenti, le prove furono monopolizzate dalla 917 privata di Piper-Redman contro un manipolo di 3 litri. Nonostante la schiacciante superiorità della loro vettura, l'equipaggio si gettò in una performance assurda nel tentativo di stravincere una corsa che già aveva in tasca. A forza di strafare finirono fuori pista danneggiando la sospensione. La cura invernale aveva comunque nettamente migliorato la 917, ora più maneggevole e stabile alle alte velocità. Il lavoro era stato tanto radicale da invertire il comportamento della macchina: l'aerodinamica della prima versione e il peso del posteriore rendevano la vettura sovrasterzante. Al contrario, la Kurz soffriva di sottosterzo nelle curve lente. Daytona segnò l'inizio ufficiale della stagione: c'erano anche 5 nuove e fiammanti 512 S che attirarono l'attenzione del pubblico. Andretti al volante del bolide di Maranello fece subito saltare i cronometri con una prestazione super. Su questo circuito dalle veloci curve sopraelevate il dodici cilindri di Maranello sembrava superiore al rivale Porsche. Ma durante la notte, mentre i meccanici Ferrari si affannavano a lavorare per rimediare a questo o quel guaio, i colleghi dei team Porsche dormivano tranquilli, sicuri dei propri mezzi. In effetti, la gara si rivelò un incubo per le 512 che accusarono problemi di alimentazione, fragilità dei telai e delle carrozzerie e lacune nell'assetto. In gara si impose la Porsche Gulf di Pedro Rodriguez e Leo Kinnunen, davanti alla gemella affidata a Siffert - Redman, che potevano vincere se non fossero incappati in noie ai freni e all'impianto elettrico. L'uno a zero a favore della Porsche si trasformò presto in un pareggio nella gara successiva, sul circuito di Sebring. A tagliare le gambe alle Gulf Porsche furono particolari non precedentemente testati che portarono al ritiro di entrambi gli equipaggi. I due esemplari iscritti dalla Porsche Audi USA, affidati a Hermann - Linns e a Elford - Ahrens, nonostante non godessero degli ultimi aggiornamenti, non furono in grado di piazzare il colpaccio per rottura del motore e per un incidente che danneggiò la sospensione. Vittoria ad Andretti con la 512 S. A Maranello s'illusero di aver risolto i problemi di gioventù della loro creatura, ma in realtà i guai dovevano ancora cominciare. A Brands Hatch, sotto una pioggia battente, fu l'occasione per uno splendido assolo di Pedro Rodriguez, che lasciò il volante al compagno Kinnunen soltanto per pochi giri. Alle loro spalle si piazzarono senza affanni le 917 del Salzburg affidate a Elford - Hulme e Herrman - Atwood. Al successivo appuntamento di Monza, per la tradizionale 1.000 Km, la Porsche fece debuttare il nuovo e più potente motore da 4.907 cm3. La cilindrata maggiorata era stata ottenuta con un aumento della corsa da 66 mm a 70,2 mm. La potenza saliva di conseguenza intorno ai 580 CV, mentre i valori di coppia rimasero analoghi a quelli della versione precedente, registrando 54 kgm a 6.800 giri/min contro il precedente di 50. Per la prima volta furono sperimentati nuovi dischi freno della Girling, che si rivelarono più efficaci dei precedenti ATF. Il propulsore aggiornato fu utilizzato dal solo Siffert durante le prove e poi subito accantonato per una perdita d'olio. Ciò non impedì a Seppi di incassare un mesto ritiro quando si trovava al comando della corsa, tradito proprio dal motore. Guai anche per Elford e Ahrens, dopo il brivido di una foratura a più di 280 km/h. La vittoria andava ancora a Rodriguez - Kinnunen. In vista della Targa Florio le squadre Porsche decisero di lasciare a casa le grosse 5 litri, che ben poco si adattavano alla tortuosità del tracciato siciliano. Soltanto il team Salzburg si azzardò a schierare un 917 per Elford - Hermann, che però non andarono oltre le prove. La Ferrari portò le sue 512, rassegnandosi a subire il tiro delle più agili 3 litri. Infatti, la 908 si dimostrò subito molto performante conquistando la pole con Kinnunen e la vittoria con Siffert - Redman. La successiva gara rappresentava anche un anniversario: nel 1969 la 1.000 Km di Spa aveva ospitato il debutto ufficiale della 917 che, come si ricorderà, fu un fallimento. A distanza di un anno, con una macchina profondamente modificata e migliorata rispetto all'originale, Pedro Rodriguez conquistò la pole, mentre il solito Siffert, in coppia con Brian Redman, tagliava il traguardo vittorioso, consentendo alla casa di Stoccarda di chiudere con ampio anticipo la partita per il mondiale marche. La corsa non si rivelò una passeggiata, perché la pista bagnata rappresentava un terreno ideale per il talento di colui che all'epoca veniva considerato il re della pioggia: Jacky Ickx, per l'occasione al volante della 512S. Per buona sorte della Porsche, il compagno di squadra del belga, John Surtees, non si dimostrò altrettanto abile e i piloti di Maranello dovettero accontentarsi del secondo posto davanti alla 917 di Vic Elford e Kurt Ahrens. Per la 1.000 Km del Nurburgring tornarono in campo le piccole 908, che non faticarono a mettersi dietro le rivali 512, sempre più svergognate dalla sfortuna, da una cattiva gestione e da sviluppi tecnici non sempre felici. Dopo la vittoria di Sebring, la grossa Ferrari aveva appena disturbato le Porsche 917, cogliendo qualche podio e diversi piazzamenti, ma non era più riuscita ad issarsi fino a quell'agognato gradino più alto del podio. Enzo Ferrari aveva un bel tuonare e ringhiare contro i suoi uomini, ma i risultati non cambiavano. Nino Vaccarella, che ebbe esperienze con entrambe le macchine, in un'intervista di qualche anno fa ne sottolineò le differenze: "La 917 era complessivamente migliore: una vettura più facile da guidare, più morbida come assetto, meno esigente con gli pneumatici, con un posto guida decisamente più comodo. Come potenza si equivalevano, ma la 512 era troppo nervosa, costringeva i piloti ad una guida costantemente al limite. Guidarla alla Targa Florio o al Nurburgring (ndr: dove Vaccarella conquistò due terzi posti) era un incubo. Anche il cambio della Porsche era più efficace e preciso." Le Mans rappresentava l'ultima chance di salvare la stagione per la Ferrari, mentre la Porsche non voleva assolutamente fallire quell'obiettivo che era nel dna del suo bolide: vincere finalmente la terribile 24 Ore che tanto a lungo si era negata. Lo schieramento era da brivido: 11 512S contro 8 917. Scelte tecniche e tattiche della Porsche vennero ampiamente illustrate dall'ingegner Piech in un'intervista concessa ad Autosprint alla vigilia della corsa: "Noi qui a Le Mans abbiamo 8 macchine del modello 917 con motore 12 cilindri. Cinque esemplari sono muniti del motore 4.500, mentre i nostri equipaggi più veloci, vale a dire Siffert - Redman, Rodriguez - Kinnunen ed Elford - Ahrens hanno il 4.900 a loro disposizione." L'ingegnere parlò poi diffusamente della versione coda lunga ideata per quell'anno: preparata in aprile, una volta sperimentata in pista la nuova soluzione aerodinamica aveva evidenziato un forte incremento delle velocità di punta, a discapito però della stabilità in curva. Inoltre, la limitatezza degli sfoghi per l'aria calda aveva messo in crisi l'affidabilità della meccanica, mentre la necessità di trovare più carico aerodinamico nei tratti misti della pista aveva reso necessaria l'adozione di un alettone che correva per tutta la larghezza della coda, vanificando in parte gli interessanti valori di velocità di punta (si parlava di circa 370 Km/h in rettilineo). "La Scuderia di John Wyer ha preferito le macchine a coda corta, in quanto più stabili" ma l'ingegnere si peritava anche di far sapere che "personalmente io sceglierei sempre il "vestito" lungo per Le Mans, perché anche se in curva si è un po' più lenti, non si è lenti in modo tale da lasciarsi passare dagli altri, mentre sul rettilineo si è molto più veloci degli altri. La velocità massima del modello con coda lunga è talmente superiore alla versione normale della 917, che abbiamo dovuto munire di nuovo le macchine con il cambio cinque marce che avevamo abbandonato dalla fine dell'anno." La conversazione si fa ancora più interessante quando Piech passa ad illustrare i consumi della 917: "Qui a Le Mans le macchine consumano parecchio, dato che i motori girano quasi sempre a pieno ritmo. I nostri cinque litri divorano quasi 55 litri di carburante ogni 100 km, vale a dire che i 120 litri di benzina concessi dal regolamento saranno esauriti ogni 45 o 50 minuti." Ai piloti della 917 fu inoltre imposto un regime massimo di rotazione del motore di 8.200 giri/min, del tutto prudenziale rispetto al regime massimo ammesso da Piech di 9.000 giri/min. Questo nonostante i propulsori fossero stati provati al banco per venti ore, secondo le procedure standard di controllo qualità stabilite dalla Porsche, senza evidenziare alcuna anomalia. Traspare in questa intervista un certa sicurezza sulla qualità del materiale a disposizione e sulla probabilità di un vittoria targata Porsche. In realtà, il risultato era assai meno scontato di quanto si potesse pensare, anche se a Stoccarda avevano già stampato i poster celebrativi. Il tempo di Vaccarella era lì a dimostrare che, almeno in termini di prestazione assoluta, la Ferrari era presente. Il "preside volante" fermò il cronometro sui 3'20" netti, alla media di 242,442 Km/h, infrangendo il record fatto segnare dalla 917 di Stommelen l'anno prima. Invano, i piloti Porsche tentavano di sopravanzare Vaccarella e soltanto Vic Elford riuscì ad ottenere in extremis il tempo di 3'19"8, che gli valse la pole ed evitò a Ferry Porsche, mossiere della corsa, l'umiliazione di dare il via ad una rossa Ferrari. La gara fu un'altra storia, con le Porsche che fecero molto per meritare la vittoria e le Ferrari che fecero di tutto per non ottenerla. In fondo, delle 8 917 al via solo due videro il traguardo: quella rossa e bianca del Salzburg, affidata a Hans Herrmann e Richard Attwood e quella del Martini Racing con Larrousse - Kauhsen al volante. Ironia della sorte: Hans Herrmann vincitore un anno dopo essere uscito sconfitto nel grandioso duello con la GT 40 di Ickx, e per giunta con una 917 che non godeva degli ultimi aggiornamenti aerodinamici, né del motore da 4.907 cc. Ironia anche nel secondo posto ottenuto dalla formazione più giovane ammessa alla gestione della 917, con quella livrea un po' sfacciata, tutta ghirigori verdi e blu che qualcuno definì hippy . Nessuna delle 917 del Gulf al traguardo e nemmeno quella iscritta direttamente dalla casa, che aveva colto la pole. Guasti ai motori e qualche errore. Siffert fu forse il più amareggiato dei piloti Porsche: se non gli fosse scappata la quarta marcia proprio quando era in testa, facendo strillare di dolore il suo 12 cilindri boxer, come sarebbe andata? Da segnalare il nono posto di una 908 un po' particolare: iscritta dalla Solar Production e condotta in gara da Herbert Linge e Jonathan Williams, montava una cinepresa per riprendere la gara. Gli spezzoni ottenuti furono poi usati nel celebre film "La 24 Ore di Le Mans" con Steve McQueen. Costata una fortuna, la pellicola riscosse ben poco successo al botteghino, mandando in bancarotta la Solar Production e lo stesso McQueen che ne era proprietario. Le Ferrari? Tutto venne riassunto da Marcello Sabbatini in una serie di inquietanti interrogativi emersi in un momento di italica tristezza: come mai tanta esasperata rivalità tra i piloti Ferrari e tanta dissennatezza dai box nel lasciare le proprie macchine battagliare così ravvicinate? Uno schizzo d'olio sul parabrezza della prima 512 di Wissell, malefico scherzo della diabolica vettura di Larrousse che precedeva, e via! Quattro Ferrari accartocciate in un sol colpo a Maison Blanche, in un terribile schianto a più di 200 all'ora. E che dire di Ickx, il re del bagnato, che sotto il diluvio si gettò a testa bassa in un'insensata caccia alla vettura battistrada di Siffert, incappando in una fatale uscita di pista. Fatale per le sue speranze di vittoria e per un commissario di pista. Se avesse atteso pazientemente 34 minuti, avrebbe visto Elford uscirsene di scena con i "pistoni rotti". Alla fine ci pensarono quelli della N.a.r.t. di Chinetti a salvare la faccia, con la 512 di Posey - Bucknum al quarto posto, ma dietro una Porsche 908 da 3 litri. Con la Porsche che aveva conquistato il mondiale marche e fatto finalmente centro nella 24 Ore di Le Mans, l'interesse per la parte finale della stagione sembrava sfumare in dissolvenza. Ma i protagonisti di questa appassionante cavalcata dimostrarono che lo spettacolo non era finito, e non lo sarebbe stato fintanto che la bandiera a scacchi non avrebbe salutato il vincitore dell'ultima corsa. Alla 6 Ore di Watkins Glen la Ferrari ritrovava il suo pilota di punta, Mario Andretti. Bella battaglia tra la sua 512 e le 917 del Wyer: l'italoamericano, con una prodigiosa partenza bruciò il poleman Rodriguez, ma la sua corsa in testa durò pochi giri prima di dover cedere a Siffert e al messicano. A quel punto si scatenò una battaglia fratricida tra i piloti Porsche, con Rodriguez ferocemente a caccia di Siffert: il messicano non fece complimenti e passò Seppi alla Big Bend, il velocissimo curvone che precedeva il box, sportellando senza ritegno il compagno di squadra. Seppi dovette cedere e rientrare precipitosamente ai box per sostituire una ruota danneggiata nel contatto, senza peraltro perdere la posizione. Fu un'autentica fortuna se non si ritrovarono entrambi fuori pista tra i rottami fumanti dei loro bolidi. Siffert si rifece nel successivo ed ultimo appuntamento della Stagione a Zeltweg, cogliendo una luminosa vittoria sul velocissimo circuito austriaco. La Ferrari buttò nella mischia l'ennesimo rimaneggiamento della 512, con un'aerodinamica completamente diversa, qualche cavallo in più sotto il cofano e qualche chilo in meno nel peso. A Maranello pensavano di essere finalmente giunti alla fine del calvario, ma la fiducia dei tecnici in quella che venne poi denominata 512 M fu spazzata via dalla furia di Enzo Ferrari, che non voleva più sentir parlare di 5 litri.
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La stagione 1971 prese il via con la 1.000 KM di Buenos Aires, per la prima volta valida per il campionato marche. La classe cinque litri, entrata in vigore con tanto entusiasmo l'anno prima, aveva già i giorni contati. I tavoli delle federazioni automobilistiche sono come i cilindri dei prestigiatori: vi escono colombe e conigli in gran quantità, che poi spariscono con la stessa rapidità. Sulla strada delle grosse sport si erano buttate solo Ferrari e Porsche, mentre gli altri costruttori avevano continuato a battere la strada delle tre litri. E adesso anche la Ferrari, dopo la batosta del '70, faceva una precipitosa marcia indietro per iniziare lo sviluppo della 312 PB. Le 512 M vennero affidate a squadre private senza spenderci una lira in più. Vaccarella al proposito ricorda: "Quando ci penso ritengo che la Ferrari abbia perso una grande occasione. Nel 1970 la Porsche 917 era una vettura superiore alla 512S, ma la stessa superiorità l'aveva la Ferrari 512M nei confronti della Porsche. Davvero non ho mai capito perché Enzo Ferrari nel '71 decise di effettuare un programma ridotto con il prototipo 3 litri, quando invece avrebbe potuto schierare due 512 M e prendersi così una bella rivincita." A credere in quella che doveva essere la classe regina rimase soltanto la Porsche, decisa a sfruttare fino in fondo le potenzialità del proprio progetto, in attesa di definire il suo futuro nelle corse. Ancora due team di punta avrebbero gestito il materiale migliore: la collaudata squadra di John Wyer e il Martini Racing, che prendeva il posto del Salzburg. All'interno del Gulf Porsche team si procedette a qualche aggiustamento negli equipaggi: Rodriguez perse Kinnunen in favore dell'ex pilota di Formula 1 Jacky Oliver, mentre Siffert fu affiancato da Derek Bell. La battaglia per la prima posizione in griglia vide ovviamente in lizza le 917, ma anche la sorprendente Ferrari 312 PB di Giunti - Merzario. Gli italiani riuscirono ad incunearsi tra il poleman Rodrigeuz e Siffert, con Giunti che al via della corsa tentò una disperata fuga, subito tamponata dalla maggiore potenza delle vetture tedesche. Ignazio non riuscì a resistere né a Siffert, né a Rodriguez, né all'assurda vicenda che lo attendeva: al 39° giro si ritrovò la pista ingombra della Matra spinta da Beltoise, rimasto a piedi. Un terribile schianto che lasciò miracolosamente illeso il francese e costò la vita al generoso pilota italiano. La vittoria andò a Siffert - Bell davanti a Rodriguez, e al suo nuovo compagno di macchina, Oliver, rivelatosi non meno testa calda del messicano. Alle loro spalle una vecchia conoscenza della Porsche: Rolf Stommelen sull'Alfa 33. Con l'Alfa doveva correre anche Emerson Fittipaldi, ma demolita in prova la macchina italiana, il brasiliano "tradì" volentieri per correre con la 917 privata di Alex Soler Roig, in coppia con l'astro nascente e idolo locale Carlos Reuteman. Per la successiva 24 Ore di Daytona, le Porsche 917 ricevettero un arco di rinforzo tubolare piazzato dietro l'abitacolo, che garantiva maggiore rigidità al telaio e offriva più sicurezza ai piloti in caso di incidente. Inoltre la coda si arricchiva di grosse pinne laterali per stabilizzare la vettura. A Daytona ricomparvero anche le 512M. Particolarmente brillante quella gestita dal team Sunoco di Roger Penske, affidata alle sapienti mani di Mark Donohue e David Hobbs, che conquistarono agevolmente la pole position. Gli americani cercarono subito la fuga, ma riuscirono soltanto a seminare Siffert, mentre la 917 di Rodriguez - Oliver restava incollata come un francobollo in attesa degli eventi. La loro pazienza fu premiata quando l'alternatore della Ferrari gialla e blu iniziò a fare i capricci, costringendo Donohue ai box per una precipitosa riparazione. La 917 del messicano e dell'inglese prese così il largo, con un buon vantaggio su Siffert - Bell, poi costretti al ritiro dalla rottura del motore. La seconda posizione fu così ereditata dalla 512 di Bucknum - Adamowicz, che però si ritrovavano con un distacco abissale dalla testa della corsa. Dietro iniziava un feroce duello per il terzo posto tra la 512 di Donohue e la 917 Martini di Elford, conclusosi poi con una rovinosa uscita del secondo in seguito ad un copertone che aveva preso fuoco. Accortosi dell'incidente occorso al rivale, Donohue alzò prudentemente il piede per non essere coinvolto nell'incidente. Non così una Porsche 911 che piombò nel retrotreno della Ferrari, obbligandola ad un'altra sosta ai box di emergenza per rappezzare la macchina. Intanto, la 917 di Rodriguez - Oliver manteneva la testa della corsa per tutta la notte, quando verso mattina si scatenò il diluvio sulla pista. Sosta obbligata per il cambio gomme, con la macchina del messicano che iniziava a sputare fumo dallo scarico di sinistra. Ritornato in pista l'equipaggio tentò il difficile compromesso di salvaguardare il mezzo e il vantaggio sulla Ferrari di Bucknum, che su pista bagnata stava rinvenendo fortissimo. A fregare la Porsche fu la trasmissione, che costrinse a una lunga sosta ai box per riparare il cambio. Quando un infuriato Rodriguez riprese la corsa, Bucknum era ormai in testa e al messicano toccò lavorare come un dannato per ripescare la Ferrari e toglierle il ruolo di battistrada. Nel frattempo si era fatta sotto anche l'altra Ferrari di Donohue e il finale di quell'edizione della 24 Ore fu tra i più tirati nella storia della celebre corsa americana. La 917 riuscì a tagliare il traguardo in prima posizione, ma ci mancò poco che dovesse soccombere alle due Ferrari. A Sebring tornò il pericolo delle piccole tre litri, con Ferrari e Alfa competitive nella conquista della pole. Al via della corsa scattarono in testa la Ferrari 512 M di Donohue, le 917 di Siffert e Rodriguez, la Ferrari 312 PB di Andretti e la 33/3 di Nanni Galli. Dopo un'ora "Piedone" Andretti si portò minacciosamente alle spalle di Siffert, quando lo svizzero rimase clamorosamente a secco di benzina. Molto filosoficamente Seppi parcheggiò a bordo pista il suo bolide, si fece accompagnare in motorino fino ai box da un commissario di pista, dove recuperò una tanica di benzina. Poi, sempre a bordo del biciclo, ritornò alla macchina, che dopo l'operazione di abbeveraggio riprese a ruggire più di prima, permettendo lo svizzero di riprendere la corsa. La direzione gara rimase insensibile ai reclami delle altre squadre e in particolare a quelle di Roger Penske, permettendo così al "benzinaio" Siffert di passare indenne nella bufera che poteva costargli la squalifica. Intanto, in testa alla corsa si era formato un'interessante gruppetto: Andretti - Ickx in testa, seguiti da Donohue - Hobbs e Rodriguez - Oliver, mentre alle loro spalle arrivavano sparati come una palla di cannone Elford - Larrousse con l'altra 917 del Martini. E fu proprio questa a beneficiare degli eventi seguenti alla settima ora di corsa. Andretti fuori per noie al motore e Rodriguez che faceva follemente a sportellate con Donohue per la posizione di testa, costringendo entrambi a cercare un carrozziere nei box. Scomparsi questi brutti clienti, Elford e Larrousse se la dovettero vedere con le Alfa di Galli - Stommelen e De Adamich - Pescarolo, rimasti sornioni in attesa degli eventi, e che adesso attaccavano forsennatamente. Nulla da fare però, contro le migliori prestazioni della 917. A Brands Hatch arrivò anche il nuovo motore da 4.998 cm3: se per ottenere il 4.907 si era agito sulla corsa, questa volto si aumentò l'alesaggio portandolo a 86,8 mm. La potenza si collocava sui 630 CV a 8.300 giri/min con una coppia di circa 65 kgm a 6.400 giri/min. La nuova unità fu inizialmente concessa in esclusiva al solo team di John Wyer, per poi essere affidata anche agli altri team per le gare fuori campionato di fine stagione. Meno sostanziale la sperimentazione di due grossi airscope, uno per bancata, sulle vetture del Martini International, che infatti non ebbero futuro. Le importanti novità non impedirono la ribellione dei piloti Porsche: con circa 600 CV sotto il sedere, gli equipaggi delle 917 si vedevano esposti agli attacchi delle piccole 3 litri. "La vettura sballonzola in certe curve ed è poco maneggevole nel frenaggio" lamentò Elford. Per intanto Regazzoni si accaparrava la pole con la 312 PB. Al via della corsa le Porsche del team Gulf presero il sopravvento sotto la pioggia. Poi, quando ormai si stava assestando il loro dominio, si scatenò il delirio. Rodriguez a piedi tradito dall'iniezione, Siffert fermo ai box per un dado delle ruote bloccato. Lo svizzero riuscì a riprendere la pista, ma soltanto per ritrovarsi con il cambio scassato. La vittoria fu così consegnata nelle mani dell'Alfa 33/3 di De Adamich - Pescarolo, davanti alla 312 PB di Ickx - Regazzoni. A primavera si tennero, come di consueto, le prime prove in vista della 24 Ore di Le Mans. La 917 si presentò con una nuova aerodinamica a coda lunga molto sorprendente. Il muso era ora più profilato e le prese d'aria anteriori erano state riunite in un'unica grande apertura rettangolare e più squadrata. Radicalmente nuovo il cofano posteriore con la coda rastremata e non più tagliata, un grande profilo alare sorretto da paratie laterali e ruote posteriori carenate per migliorare la penetrazione aerodinamica. Con questa versione Jacky Oliver diventò l'uomo più veloce del mondo su una vettura da corsa, fermando i cronometri a 3'13" netti e facendo registrare una velocità di punta sull'Hunaudiéres di 385 Km/h. "Con l'aerodinamica che caratterizza le nostre macchine non è necessario potenziare ulteriormente il motore 5 litri." Spiegò Oliver, "A quella velocità la vettura ha confermato le sue eccezionali doti di stabilità e di tenuta. Pensi che la mezza curva subito dopo il rettilineo l'ho fatta in pieno". L'aerodinamica non era l'unico settore in cui la Porsche concentrava i suoi sforzi, durante prove private fu anche testato un telaio al magnesio ancora più leggero di quello in uso, ma l'innovazione non ebbe un immediato seguito. Alla 1.000 Km di Monza la Porsche si confermò protagonista e non solo per le vicende in pista. Come una doccia fredda, arrivò la conferma che la casa tedesca aveva perso ogni interesse nel mondiale marche. Restava ancora da definire dove si sarebbe concentrata l'attività sportiva, anche se si vociferava che la prossima destinazione sarebbe stata la popolarissima Can Am. Il circuito brianzolo pareva disegnato per esaltare le potenze delle 5 litri tedesche, che non ebbero problemi a dominare con Rodriguez - Oliver sul gradino più alto del podio e Siffert - Bell al secondo posto. Stessa musica a Spa dove Siffert polverizzò ogni possibile record di velocità e siglò la pole alla strabiliante media di 260 km/h. Ma in gara non riuscì ad opporsi a quello che veniva considerato il re della pista belga, Pedro Rodriguez, che con una superba prestazione raccolse la vittoria. La Targa Florio, invece, si rivelò una battuta d'arresto. Le 908 non tennero il passo di Vaccarella - Hezemans sull'Alfa 33/3, ormai l'incubo delle vetture tedesche. La pattuglia dei piloti Porsche si rifece sui tribolati 22 km del Nurburgring, dove vinse la 908 Martini di Elford - Larrousse. Questa sfacciata cavalcata Porsche poteva trovare un'ulteriore battuta d'arresto a Le Mans, ma ben pochi vi credevano. a giudicare dai pronostici largamente in favore della macchina tedesca. Le Ferrari 512 M non erano più state aggiornate e le tante 3 litri schierate sul campo non avevano possibilità alcuna di emergere su una pista veloce, che premiava la potenza pura. L'unica possibilità era che le 917 non sopportassero i pesanti aggiornamenti introdotti per la classica maratona francese. Dei tre telai a coda lunga preparati dalla casa (917 LH), due furono affidati al team Gulf Wyer per gli equipaggi di punta Rodriguez - Oliver e Siffert - Bell, più una al Martini Racing per Larrousse-Elford. A quest'ultima squadra fu affidata anche la 917/20, una vettura laboratorio destinata a sperimentare nuove soluzioni in vista della futura partecipazione al campionato Can-Am: dischi freno con alettature radiale in luogo dei tradizionali fori, carreggiate più larghe, muso corto, coda chiusa e forme decisamente più arrotondate che fecero pensare i tecnici di Stoccarda a un porcellino. La vettura, destinata all'equipaggio Kauhsen - Jost, venne dipinta di rosa e, in maniera assai spiritosa, sulla sua superficie vennero tratteggiati i tagli in cui era possibile dividere un maialino da macello. Entrambi i team schierarono poi un esemplare a testa di vecchie K per Marko - Van Lennep (Martini) e Attwood - Muller (Wyer). C'erano poi una 917 dello Zitro e una della Escuderia Nacional. Curiosamente, la Porsche non si azzardò a utilizzare il motore da 4.998 cm3, troppo nuovo per rischiarlo in una gara così massacrante. Le rivali più accreditate di queste vetture erano le dieci 512 schierate da team privati, di cui nessuno appoggiato direttamente dalla Ferrari. Fin dalle prove non ci fu storia: le 917 LH spuntavano velocità di punta terrificanti sul lungo rettilineo dell'Hunaudieres. Rodriguez conquistò la pole con il tempo di 3'13"9, davanti a Larrousse e Siffert. La prima Ferrari era la 512 M della Nart, affidata alla collaudata coppia Donohue - Hobbs, quarta con il tempo di 3'18"5. Al via Rodriguez si rimangiò le dichiarazioni della vigilia: "Useremo la consistenza come base delle nostre prestazioni. Questa è una prova di durata non un Gran Premio." Infatti, partì sparato come una palla di cannone e nel breve corso di qualche giro era già riuscito a costruire un solido vantaggio sugli inseguitori diretti, Elford e Siffert. Dopo quattro ore di corsa le Porsche marciavano praticamente in gruppo, appena infastidite da Donohue, che lottava come un maledetto per restare nella scia delle 917. Dalla quinta ora i ritiri cominciarono ad assottigliare i pretendenti alla vittoria: Gli sforzi di Donouhe e Hobbs finirono per cuocere il motore. Nel frattempo Larrousse e Vic Elford avevano anch'essi subito il triste destino del ritiro per problemi di surriscaldamento. Alle tre del mattino, Oliver dovette portare a Rodriguez la brutta notizia di un mozzo rotto sulla loro 917. Il messicano e l'inglese vedevano sfumare così la loro leadership: Pedro fu rimandato in pista dopo un'ora di riparazione e con la consueta foga riuscì a recuperare fino al sesto posto, ma a quel punto si ritrovò in un bagno d'olio per la rottura di un condotto. La testa della corsa era stata ereditata dall'unica 917 LH superstite, quella di Siffert - Bell, i quali, però, a loro volta dovettero dire addio ai loro sogni di gloria per la rottura del motore. Helmut Marko e Gijs Van Lennep, con la vecchia 917K del Martini Racing, si trovarono inaspettatamente la strada aperta verso la vittoria, anche in virtù di una condotta di gara più assennata di quella dei rivali e compagni di marca. Colsero il trionfo davanti all'altra 917 K del John Wyer, quella affidata a Richard Attwood e Herbert Muller. Per due anni consecutivi e pur essendo il team di punta della Porsche, John Wyer si era visto soffiare sotto il naso la vittoria nella gara che da sola valeva una stagione. Il Martini Racing aveva vinto anche a livello organizzativo, escogitando un sistema di rifornimento basato su speciali bidoni inclinati, che si rivelò nettamente più veloce di quello degli avversari, con un guadagno dai dieci ai 30 secondi sugli altri team per ogni rifornimento (cambio gomme e pilota incluso). La minuzia nella preparazione della corsa si spinse fino a verniciare la vettura vincitrice con il solo bianco, e non con il consueto argento metallizzato, per risparmiare 4-5 kg sul peso. Alla gioia della vittoria si aggiungeva la soddisfazione per aver fatto segnare il record sulla distanza, ora fissato a 5.335,313 km percorsi alla media di 222,304 Km/h. Al terzo e al quarto posto chiudevano le 512 M di Posey - Adamowicz e Craft - Weir, giunte con un distacco di 31 e 42 giri dai primi: praticamente un abisso. Nell'analisi del dopo gara la Porsche rilevò che le noie patite dalle 917 LH erano probabilmente dovute alle eccessive velocità raggiunte da queste vetture, che attraverso le vibrazioni generate mandavano in crisi la meccanica. Alla 1.000 chilometri di Zeltweg Rodriguez, questa volta in coppia con Richard Attwood monopolizzarono qualifiche e gara. Ma il destino attendeva Pedro: pochi giorni dopo quella sua brillante affermazione, si recò a Norimberga per correre con una Ferrari 512M messagli a disposizione da un amico. Il coraggioso messicano, che spesso faticava a tenere a freno il suo impeto focoso e latino, il pilota che aveva quel suo modo di correre generoso, l'uomo che non conosceva il risparmio di se stesso, né sovente quello del mezzo affidatogli, cadeva sul palco di una gara minore e con la macchina che per due stagioni gli era stata avversaria. L'ultima gara valida per il mondiale marche del 1971 era la 6 Ore di Watkins Glen, dove le 917 di Siffert - Van Lennep e Bell - Attwood dovettero accontentarsi di sfilare sul traguardo dietro all'Alfa 3 litri di De Adamich - Peterson. In un certo senso era il passaggio di testimone tra la formula 5 litri, che aveva regalato due stagioni intense con macchine da sogno, a quella che sarebbe stata la classe regina a partire dalla stagione successiva. La magica sigla 917 non era comunque destinata a scomparire. Come già annunciato in primavera a Monza, la Porsche sarebbe emigrata nella Can-Am e la nuova vettura per quella serie sarebbe stata battezzata 917/10K. Le ragioni per una così radicale rottura con il mondiale marche risiedevano nel regolamento libero offerto oltreoceano. Meno vincoli regolamentari significavano anche maggiore libertà e creatività nella ricerca di soluzioni ai problemi che ogni macchina da corsa offriva. Soluzioni che poi potevano essere riversate nella produzione di serie, fine ultimo dell'attività sportiva per una casa come la Porsche. Ci fu anche chi fornì spiegazioni meno filosofiche a quel ritiro: il nuovo regolamento basato su motori tre litri avrebbe obbligato la Porsche a riprogettare il motore della 908 per trovare la potenza necessaria a battere Ferrari, Matra e Alfa Romeo. La 908 si era mostrata ancora ottima al Nurburgring e alla Targa Florio, ma quelle corse rappresentavano una eccezione in un panorama di circuiti che spesso privilegiava la velocità assoluta. Il problema e che, con il vincolo progettuale del raffreddamento ad aria, non si era potuti passare ad una distribuzione a quattro valvole per cilindro, perché non si sarebbe riusciti a tenere sotto controllo le temperature delle testate e per ragioni di spazio. Senza il raddoppio delle valvole era assai difficile trovare la potenza necessaria a controbilanciare i motori di Matra, Ferrari e Alfa, che avevano ormai adottato quella soluzione da tempo. Il problema si era già evidenziato con il 12 boxer della 917, per molti giunto al limite del suo sviluppo senza la possibilità di aumentare la cilindrata. Il passaggio alla Can Am rimuoveva questi vincoli e permetteva di battere nuove strade: dopo la proposta di un propulsore a 16 cilindri, quasi subito accantonata per ingombri e peso, si optò per la rivoluzionaria tecnologia del turbocompressore. La potenza del 12 cilindri schizzò d'incanto a quota 1.000 CV. I ricercatori della Porsche si trovarono però a fronteggiare il famigerato turbo lag e la necessità di coniugare un telaio leggero con l'esuberante potenza ottenuta. Nella soluzione di questi problemi, una grossa mano venne dal team Sunoco di Roger Penske e dal suo pilota di punta Mark Donohue. Esauritasi l'esperienza tutto sommato deludente con le Ferrari 512M, l'organizzazione americana era riuscita ad accaparrarsi la gestione delle vetture Porsche per la Can Am. Mark Donohue, che oltre a essere eccellente pilota era anche ingegnere, si trasferì a Stoccarda ed insieme ai tecnici Porsche collaborò a mettere in campo una vettura formidabile. In definitiva, la 917/10K risultò una barchetta completamente diversa dalla 917 originale, con la quale manteneva in comune soltanto la base del motore e alcune esperienze, ma si dimostrò altrettanto efficace conquistando i campionati Can Am del 1972 e 1973, con un totale di 16 vittorie all'attivo. I suoi veri punti di forza erano l'estrema leggerezza del telaio coniugata alla potenza mostruosa che aveva fatto invecchiare di colpo i poderosi motori big block ad aste e bilancieri, fin lì dominatori incontrastati della serie. Si racconta che una volta un giornalista domandò a Donohue se non provasse mai paura nel controllare quella massa assurda di cavalli. Il pilota statunitense rispose con molta semplicità: "Per me non c'è abbastanza potenza fino a che non slittano le ruote a fine rettilineo, quando sono nella marcia più alta." Al termine della trionfale stagione '73 la Porsche si ritirò anche dalla Can Am, che oltre tutto stava entrando in crisi e sarebbe sopravvissuta soltanto un altro anno, consegnando definitivamente alla storia la 917 come una delle forme più alte e perfette in cui sia stata mai espressa la vittoria nello sport automobilistico.
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Un particolare ringraziamento al Museo dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia" di Torino per aver messo a disposizione con la consueta cortesia il proprio archivio e a Marco Zanello che mi ha pazientemente assistito nella ricostruzione di questa meravigliosa storia.
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