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Le corse sono il terreno naturale per la sperimentazione e l'innovazione, ma non sempre la macchina vincente è la più rivoluzionaria: la storia dell'automobilismo sportivo, infatti, è costellata di vetture che non avevano nulla di particolarmente innovativo, ma si limitavano a far funzionare al meglio le conoscenze e la tecnologia disponibile all'epoca. Questo non va assolutamente letto come un demerito, e la storia della 250F è lì a dimostrarlo. La semplicità e la razionalità del progetto sono un motivo sufficiente per interessarsi a questa monoposto, ma ad esso si aggiunge la straordinaria longevità: la 250F ha calcato le scene della Formula 1 dal Gran Premio d'Argentina del 1954, vinto grazie alle superbe doti di Juan Manuel Fangio, fino al Gran Premio degli Stati Uniti del 1960, ultimo atto della formula da 2.500cc. Notevole il palmarès accumulato in questo lungo periodo: su 281 iscrizioni, la monoposto modenese ottiene 8 pole position, 12 giri veloci, 8 vittorie, 6 secondi posti, 12 terzi e 41 piazzamenti nei punti. E se tutto questo non bastasse a farci sfondare le porte della straordinarietà, ci si potrebbe rifare gli occhi con quell'interminabile elenco di piloti che sono scesi in pista con uno dei circa 35 esemplari costruiti: sono ben 62 e, scorrendo velocemente la lista, s'incontrano i più prestigiosi nomi dell'automobilismo dell'epoca: Stirling Moss, Alberto Ascari, Gigi Villoresi, Phill Hill, Luigi Musso, Peter Collins, Carroll Shelby, Jack Brabham, e perfino una donna, Maria Teresa de Filippis, che in un mondo maschilista come la Formula 1, riuscì ad imporsi, ottenendo anche risultati di rilievo. Il posto d'onore va senz'altro a Juan Manuel Fangio, che nella 250F incontrò la sua ultima compagna di corsa, per conquistare il quinto titolo mondiale nel 1957 e correre le gare conclusive di una carriera straordinaria. Nota assai più dolente rispetto alle precedenti, la 250F è l'ultima monoposto Maserati a partecipare ad un campionato di Formula 1: negli anni '60 l'attività del Tridente si limiterà alle vetture sport, con le innovative Birdcage, e ad una fornitura di motori alla Cooper, per ridursi poi al lumicino dopo turbolenti cambiamenti di proprietà, crisi finanziarie e tecniche. Soltanto con il passaggio sotto l'ala protettrice della Ferrari, la Maserati ha ritrovato la via delle corse con il programma GT. Tutta questa serie di dati e di fatti si limita alla sola Formula 1: è probabilmente impossibile calcolare la messe di risultati ottenuti in centinaia di partecipazioni fuori campionato, in un'epoca in cui si correva dappertutto e con tutto. Dunque, ciò che segue è soltanto la parte emergente di un iceberg troppo grande, costituito di tecnica, aneddoti, uomini, corse e passioni.
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Per capire che cosa doveva essere la 250F nelle intenzioni di chi l'ha progettata e che cosa ha realmente rappresentato nella storia del Tridente, occorre fare un salto indietro rispetto a quel fatidico 1954, per tornare al 1950 ed al primo Campionato Mondiale di Formula 1, ricostruendo quanto avvenuto nel periodo. Dopo la guerra, l'azienda aveva cambiato pelle sotto l'impulso dell'industriale modenese Adolfo Orsi, che aveva rilevato la proprietà dai tre fratelli Maserati nel 1937. All'attività di costruzione di macchine da corsa, quello che era stato il core business fin dalle origini della casa, si era aggiunta la produzione di vetture Gran Turismo. Nel nuovo contesto le corse non erano più soltanto uno strumento fine a se stesso, ma diventavano il propellente per pubblicizzare e vendere macchine di serie, le quali, a loro volta, dovevano finanziare l'attività agonistica: un circolo virtuoso che poteva trasformarsi improvvisamente in una spirale in vertiginosa discesa. Poco lontano da Modena, a Maranello, Enzo Ferrari stava percorrendo la stessa strada, dando inizio ad una rovente rivalità di campanile che andava oltre la pista. In apparenza lo stile dei contendenti era molto diverso: irruente e polemico quello di Ferrari, più signorile e distaccato quello di Orsi; nevrotico l'ambiente a Maranello, quanto sereno e familiare quello di Modena. In realtà, sotto gli atteggiamenti esteriori volavano "carezze" piuttosto pesanti, e Ferrari aveva ben ragione di starnazzare contro "quelli là", specialmente dopo che Adolfo Orsi aveva tentato di segargli le gambe intervenendo presso le banche che lo finanziavano. Con l'istituzione del primo campionato del mondo di Formula 1 entrambi i galli nel pollaio finirono bastonati allo stesso modo. La reginetta era l'Alfa 158, che colse il primo alloro con Farina e bissò il successo l'anno dopo (in versione 159) con Fangio. Nel 1953, il primo cambiamento regolamentare nella storia della Formula 1 aprì le porte alle meno potenti Formula 2: a due anni di distanza dall'inizio, il campionato già boccheggiava a causa della mancanza di concorrenti e di spettacolo. I cambiamenti regolamentari sono sempre un'ottima occasione per rimescolare i valori in campo e, fuori l'Alfa Romeo che non poteva più permettersi le spese pazze per le corse, in Maserati si sperava che fosse venuto il loro momento. Se n'avvantaggiò invece la Ferrari, la cui 500 F2, pilotata da Ascari e progettata da Aurelio Lampredi, era semplicemente superiore alla A6GCM del Tridente, concepita da Alberto Massimino ed Antonio Bellentani. Nel tentativo di reagire a Adolfo Orsi riuscì un colpo importante, assicurandosi i servigi di Gioacchino Colombo, la mente brillante che stava dietro le Alfetta 158 e le prime Ferrari. Il suo primo incarico fu proprio quello di mettere mano alla poco competitiva A6GCM. Colombo si concentrò sul sei cilindri in linea di 1.978cc, che forniva 180 CV a 7.000 giri/min.: la sua prima mossa fu giocare su alesaggio e corsa, ottenendo un motore di 1.988cc che spuntava 1.000 giri in più dell'originale, pur continuando a fornire la stessa potenza. Il vero salto di qualità lo ottenne soltanto con la successiva specifica, caratterizzata da un cilindrata di 1.997cc, un rapporto di compressione portato da 13:1 a 13,75:1 e l'adozione dell'accensione a due candele per cilindro: finalmente i cavalli raggiunsero quota 190 a 8.000 giri/min., superando i 185 erogati dal 4 cilindri Ferrari. Parallelamente furono migliorate le sospensioni, l'impianto frenante e si mise a dieta il telaio, portando il peso complessivo della monoposto a 650 Kg. La cura mostrò finalmente i suoi risultati con la vittoria al Gran Premio d'Italia del 1953, cioè nell'ultima gara con i motori da due litri: troppo tardi. In realtà, i problemi emersi sulla A6GCM e le relative soluzioni elaborate rappresentarono una buona base di esperienze per costruire la successiva monoposto del Tridente: la 250F.
Il principale vincolo che i progettisti Maserati dovettero affrontare nel partire dal foglio bianco, fu la semplicità di costruzione: la monoposto, oltre che veloce, doveva essere di facile manutenzione, offrendo un rapido accesso agli organi meccanici. La Maserati non aveva mai avuto una propria squadra corse, anche se poteva capitare che un concorrente venisse iscritto per conto della società "Officine Alfieri Maserati". La vera risorsa della casa erano i clienti privati, che all'epoca ancora potevano permettersi di correre in Formula 1. Questi gentleman driver non sono da confondere con gli odierni e famigerati "piloti con la valigia". I clienti privati erano gente con risorse ed il pallino per le corse, che spesso giravano sugli stessi tempi dei professionisti. Non essendoci sponsor, provvedevano in proprio a coprire le spese d'iscrizioni e di trasferta per le corse. Esistevano poi piccole scuderie, come la "Centro Sud", che si limitavano a gestire le macchine: per questo genere di clientela, la monoposto doveva essere necessariamente robusta e di facile manutenzione, non potendosi permettere le risorse, né i mezzi delle scuderie ufficiali. Il poker d'assi costituito da Bellentani, Massimino, Colombo e Colotti si mise alacremente al lavoro. Stabilito che il nuovo propulsore sarebbe stato ancora un sei cilindri in linea, scoppiò la rissa tra cervelli: Colombo prese la porta per tornarsene a Maranello. Oggetto della disputa la misura di alesaggio e corsa, poi fissati rispettivamente in 84mm e 75mm, per una cilindrata totale di 2.485,5cc. La nuova unità era caratterizzata da un rapporto di compressione pari a 12:1 e da una potenza base di 240CV a 7.200 giri/min., valore vincolato dalla composizione della miscela. A proposito di quest'ultima, la casa consigliava un carburante composto per il 50% di metanolo, 35% di benzina ad 80 ottani, 10% di acetone, 4% di benzolo e 1% di olio di ricino: l'acetone diminuiva il tempo di combustione, il benzolo assicurava la corretta miscelazione di benzina e metanolo, mentre l'olio di ricino attenuava l'effetto solvente dell'alcool sul sottile film di lubrificante che si formava sulle pareti. Estremizzando la miscela, si potevano ottenere maggiori valori di potenza, a discapito, naturalmente, dell'affidabilità meccanica. Per una combustione ottimale fu mantenuta l'accensione a due candele per cilindro, già presente sulla A6GCM. Il monoblocco in alluminio aveva sette supporti di banco dotati di bronzine Vandervell "Thin Wall", mentre l'albero motore e le bielle erano in acciaio. La lubrificazione era a carter secco, mentre per la distribuzione si seguì il collaudato sistema a due alberi a camme in testa, con due valvole per cilindro. L'alimentazione era fornita da tre carburatori doppio corpo Weber 42 DCO3. Grazie all'utilizzo di materiali leggeri si riuscì a contenere il peso del propulsore a 197 Kg, inclusa la frizione monodisco a secco di costruzione Maserati. Per il telaio si scelse una semplice costruzione a traliccio, costituita da tubi in acciaio cromo-molibdeno dallo spessore di 40mm saldati assieme, leggera e rigida allo stesso tempo. Per ottenere una migliore distribuzione del peso, il cambio a quattro marce fu spostato al posteriore, in blocco con il differenziale ZF a slittamento controllato. Il complesso era integrato nel ponte posteriore De Dion con balestra trasversale, ancorato alla parte superiore del telaio. Per spostare peso verso il baricentro, la barra De Dion fu collocata davanti al differenziale, come sulle Ferrari. Le sospensioni anteriori erano a quadrilateri deformabili con ammortizzatori Houdaille. La frenata era assicurata da quattro efficienti tamburi in alluminio costruiti dalla Maserati, dotati di due ceppi all'anteriore ed uno al posteriore. Telaio e meccanica furono rivestiti da una sottile pelle di alluminio secondo una linea pulita ed affusolata, ma abbastanza convenzionale, dominata all'anteriore dalla grande bocca ovale. Le fiancate erano caratterizzate da fitti intagli nella lamiera per consentire di evacuare il calore dal vano motore e rinfrescare l'abitacolo; sul lato sinistro un lungo e rettilineo tubo di scarico usciva dal cofano per correre verso la coda, che assecondava il grande serbatoio da 200 litri in una forma rastremata ed aerodinamica. Il tutto poggiava su quattro cerchi a raggi Borrani da 16", vero simbolo della velocità, accoppiati con pneumatici Pirelli Stelvio da 5,50x16 all'anteriore e da 7,00x16 al posteriore. La carreggiata anteriore era più larga rispetto alla posteriore (1.300mm contro 1.250), mentre il passo raggiungeva i 2.280 mm su una lunghezza totale di circa 4 metri. Il seggiolino, causa l'albero motore che attraversava l'abitacolo, era fissato parecchio in alto, accogliendo il pilota in una posizione poco aerodinamica. Lo stesso tunnel, divideva la pedaliera: a sinistra la frizione, a destra acceleratore e freno. Dietro al volante di grande diametro tipo Nardi, pochi strumenti essenziali raccolti su una piccola plancia; sulla destra, in basso, la corta leva del cambio con selettore a griglia. Per la prima volta nella storia delle monoposto, un parabrezza avvolgente sostituiva il classico vetrino squadrato, affinando il flusso aerodinamico nella zona dell'abitacolo e proteggendo meglio il pilota. Nemmeno i raffinatissimi tecnici della Mercedes, che nello stesso periodo stavano studiando la sofisticata W196 in galleria del vento, riuscirono ad elaborare una soluzione tanto semplice quanto efficace: quando il buon senso supera la tecnologia! La nuova creatura debuttò al circuito di Modena nel dicembre del 1953: l'onore e l'onere di saggiare per primo le doti della monoposto spettò di diritto a Guerrino Bertocchi, storico collaudatore della Maserati, che promosse la 250F a pieni voti. Intanto, nella sede di Viale Ciro Menotti a Modena, fioccavano le ordinazioni, tanto da costringere la Maserati ad approntare una versione interim basata sul telaio della A6GCM accoppiato al nuovo motore. Quando anche il nuovo telaio era pronto, il cliente riportava indietro la monoposto ed il propulsore veniva trasferito. Chi investì quattrini e speranze nella 250F non poté che sentirsi confortato dalla vittoria di Juan Manuel Fangio nel primo Gran Premio della stagione, nella sua Argentina. Ma la trasferta in Sud America servì anche a far emergere le magagne della monoposto, dando inizio ad un continuo sviluppo che cessò soltanto nel 1958.
Il primo grande problema della 250F era il raffreddamento: se non fosse stato per un provvidenziale temporale che falsò i valori in campo, difficilmente Fangio avrebbe riportato la vittoria nel GP d'Argentina. A Modena revisionarono il circuito di raffreddamento, spostando il serbatoio dell'olio da 20 litri in coda, dietro al grande serbatoio della benzina. Per quest'ultimo si passò da una costruzione saldata ad una rivettata, che offriva maggiori garanzie di robustezza. Alla fine del 1954, la Maserati ricevette un brutto colpo con la partenza di Bellentani e Massimino, entrambi passati alla Ferrari. La defezione portò in prima linea il giovane ingegnere parmense Giulio Alfieri, che da quel momento prese in carico lo sviluppo della monoposto. Allo stesso tempo si decise di riorganizzare il reparto corse della Maserati: un sempre maggiore livello di competitività non consentiva di poter fare esclusivamente affidamento sui clienti privati. La creazione di una squadra Maserati fu soltanto l'esplicitazione di quanto, di fatto, era già avvenuto nel corso della stagione '54. Lo schiacciante vantaggio dimostrato dalle Mercedes, obbligò i tecnici Maserati a cercare miglioramenti in ogni settore nel tentativo di recuperare il gap: nell'ottobre del 1954 vide la luce una nuova carrozzeria rivista, dotata di minori sfoghi per l'aria e quindi decisamente più aerodinamica. Sulla destra del cofano comparve anche una lunga presa d'aria per l'alimentazione dei carburatori e, nel corso della successiva stagione, vennero introdotte pinne orizzontali sulle fiancate, dietro le ruote anteriori, già introdotte nel 1951 dall'Alfa Romeo. Nell'aprile del 1955 fu la volta del nuovo cambio a cinque marce, abbinato a un differenziale ZF rivisto. Per la prima volta si utilizzarono anche carburatori Weber 45 DCO3, che si dimostrarono però insufficienti di fronte all'iniezione diretta adottata dalla Mercedes. A fine stagione si tentò il tutto per tutto, buttando nella mischia una versione aerodinamica della 250F. Per l'esperimento si utilizzò il telaio 2512, caratterizzato da una sinistra fama: su questa vettura, infatti, Marimon perse la vita sul terribile tracciato del Nurburgring, mentre Sergio Mantovani compromise gravemente la sua carriera in un incidente al Gran Premio di Torino. La vettura, ridenominata come 2518, fu dotata di serbatoi laterali che riempivano lo spazio tra le ruote anteriori e posteriori: sebbene in posizione pericolosa in caso d'incidente, permettevano una migliore distribuzione dei pesi. Il muso e la coda vennero ridisegnati più larghi, in modo da carenare le ruote e diminuire le turbolenze da esse generate, mentre le fiancate del cockpit furono alzate per proteggere e fasciare meglio la zona del pilota. Pur bellissima nelle sue forme, la nuova veste non bastò a ribaltare la situazione d'inferiorità nei confronti delle W196: la vettura, schierata al GP d'Italia, ottenne un quarto posto con Jean Behra. Nello stesso mese, partecipò al GP di Siracusa, chiudendo al quinto posto. La monoposto aerodinamica fu velocemente accantonata e nell'estate del 1956 rimase danneggiata da un incendio: si salvò il telaio e della carrozzeria non se ne seppe più nulla. Nel frattempo continuavano gli studi per migliorare le prestazioni del motore. Lo stesso Alfieri, in una breve intervista rilasciata qualche anno fa, ricordò i suoi sforzi: "la potenza iniziale era di 240/245 CV, alimentando il propulsore con una miscela di benzina ed alcool. Siamo arrivati ad avere 270 CV con la benzina. Tra il 1956 e il 1957 feci uno studio sugli attuatori di fiamma che permise di ottenere fino a 290 CV. I consumi erano alti, ma alla fine il vantaggio era tale da permettere una sosta in più per il rifornimento." Si studiò anche un migliore sfogo per i gas di scarico, collegando i due collettori principali in un unico terminale. Il Gran Premio di Monza del 1956 rappresentò ancora l'occasione per presentare novità importanti: conosciuti come "Fuoricentro", i telai 2525 e 2526 montavano il motore disassato per spostare l'albero di trasmissione e consentire la sistemazione del seggiolino del pilota in una posizione più bassa. Le due vetture presentavano anche una veste aerodinamica rivista, caratterizzata da un muso più profilato e lungo, un cockpit dalle pareti più alte ed una presa dinamica sul cofano più generosa. Alla fine del 1956 le finanze della Maserati erano già logorate dagli impegni sportivi, ma Adolfo Orsi intervenne a copertura dei buchi, anche perché nel frattempo la Maserati si era assicurata i servigi di Fangio per la stagione successiva. L'argentino, oltre a possedere straordinarie doti di guida, sapeva capire quale poteva essere la macchina vincente. Per propiziarsi la vittoria, la casa del Tridente non lesinò i mezzi: raccogliendo le esperienze e gli esperimenti dei precedenti anni, si rivide profondamente il progetto della monoposto, varando la nuova Tipo 2. Le migliorie aerodinamiche già introdotte con la "Fuoricentro" furono abbinate ad un telaio di nuova concezione più rigido e leggero, grazie all'uso di elementi tubolari più piccoli. Il peso complessivo della vettura scese così da 670 a 630 Kg. In tutto furono costruiti tre telai Tipo 2: 2527, 2528 e 2529, con il secondo, preferito da Jean Behra, caratterizzato da un passo di soli 2.240 mm. La continua ricerca portò i tecnici Maserati a sperimentare la costruzione di un nuovo propulsore 12 cilindri a V di 60° gradi. La nuova unità di 2.476cc, alimentata da 3 carburatori Weber 35 IDM e dotata della doppia accensione per cilindro, erogava l'esuberante potenza di 300 CV a 10.000 giri/min. I vantaggi prestazionali che questa unità poteva offrire erano annullati da una minore durata delle gomme posteriori e dal più elevato consumo di carburante. Il V12 fu utilizzato in due sole occasioni: nel corso delle prove per il GP di Montecarlo con Fangio, e in occasione del Gran Premio d'Italia con Jean Behra, che si ritirò per problemi di surriscaldamento. Anche senza la potenza del dodici cilindri, Fangio fu in grado di portare a Modena il titolo Mondiale. La Maserati, stremata dallo sforzo finanziario, poté finalmente annunciare il suo ritiro dalla Formula 1, limitando l'attività all'assistenza dei clienti privati. Nella primavera del 1958 l'azienda entrò in amministrazione controllata, da cui uscì grazie al successo commerciale delle vetture Gran Turismo. Nonostante il ritiro della squadra ufficiale ed i guai finanziari, la 250F subì un'ultima evoluzione: grazie all'accorciamento della distanza nei Gran Premi, fu possibile costruire vetture di minori dimensioni. La Tipo 3, o "Piccolo", era caratterizzata da un telaio più corto, dal peso contenuto a soli 550 Kg e da un muso più aerodinamico. Il telaio 2532 fu utilizzato da Fangio nella sua ultima apparizione al GP di Francia, nel 1958, e venne poi venduto alla Temple Buell, insieme al telaio 2533. La scuderia americana utilizzò le due vetture per far correre Carroll Shelby e Masten Gregory. Alla 2532 toccò anche l'onore di partecipare all'ultima gara della formula da 2,5 litri: il GP degli Stati Uniti del 1960. L'ultimo telaio costruito, il 2535, fu iniziato alla Maserati, ma completato da Valerio Colotti nel suo nuovo atelier, Officina Tecnica Meccanica, da cui prese il soprannome di "Tec-Mec". Tra i circa 35 telai costruiti, ognuno con la sua gloriosa storia, ve ne sono due degni di particolare menzione: il primo è il 2509, acquistato nel 1954 dalla Owen Racing Organisation, concorrente per conto della British Racing Motors (BRM). Gli inglesi, che si stavano preparando ad entrare in Formula 1, montarono sul loro esemplare cerchi e freni a disco Dunlop per testarne l'efficacia. Il secondo telaio è il 2513: anch'esso completato nel 1954, fu consegnato alla Vandervell Products Ltd., produttrice delle famose bronzine "Thin Wall", ufficialmente come t-car. In realtà, Tony Vandervell, fondatore dell'azienda e già socio BRM, pensava di costruire in proprio una Formula 1 per spezzare il dominio ingombrante delle vetture da corsa continentali, ed in particolare italiane. Nel 1957 la Vanwall, così si chiamò il suo Team, diede un sacco di filo da torcere alla 250F di Fangio e l'anno successivo si aggiudicò la prima Coppa Costruttori nella storia della Formula 1: i team inglesi si apprestavano a mettere le mani sul campionato grazie all'esempio di Vandervell. E anche un po' grazie alla 250F.
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Strana la storia tra la 250F e Juan Manuel Fangio: fin dal debutto in Argentina, il pilota argentino pare lo sposo predestinato della nuova monoposto. Sul circuito di Buenos Aires sbarcano due Maserati per Fangio ed il suo protetto Marimon, detto "Pinocho". Le rivali più consistenti sembrano le tre Ferrari 625 di Farina, Gonzalez e Hawthorn, ed infatti è proprio il pilota italiano a conquistare la pole, relegando Fangio al terzo posto e Marimon al sesto. La domenica un temporale provvidenziale salva Fangio dai problemi di surriscaldamento della sua monoposto, consentendogli d'involarsi alla testa della corsa davanti a Farina e a Gonzalez. Nulla da fare per Marimon, il cui motore rende l'anima. In Belgio, sul circuito di Spa Francorchamps, il plotone di 250F si arricchisce: a Fangio, Marimon e Sergio Mantovani, iscritti dalle Officine Alfieri Maserati, si aggiunge la monoposto di Stirling Moss, gestita dal suo team, e quella del Principe Bira. La pole position va ancora a Farina, ma in gara è Fangio ad imporsi sugli avversari. Con questa vittoria s'interrompe l'idillio tra l'argentino e la Maserati: entrambe le parti sapevano fin dall'inizio che sarebbe durata poco, visto che Fangio aveva già un accordo con la Mercedes. Soltanto un ritardo nella preparazione della monoposto tedesca ha costretto l'asso a cercarsi un'altra macchina per i primi Gran Premi della stagione. La Maserati perde l'uomo che poteva fare la differenza, ma Fangio guadagna una monoposto che sembra piovuta da un altro mondo. Dire che la W 196 è rivoluzionaria sembra limitativo: progettata dal Professor Nallinger e messa a punto dall'ingegner Uhlenhaut, la monoposto tedesca è caratterizzata da un telaio reticolare, sospensioni indipendenti sulle quattro ruote e motore otto cilindri in linea ad iniezione diretta. Con la sua carrozzeria carenata, che sui circuiti veloci consente vantaggi di un secondo sugli avversari, ha più a che fare con una sport che con una vera Formula 1. Ovviamente non c'è rosa senza spine: la W 196 è sofisticata, complessa da mettere a punto, poco pratica dal punto di vista della manutenzione e soprattutto pesante, visti i suoi 680 Kg. Inoltre, la carrozzeria carenata sui circuiti lenti si rivela una tortura per i piloti, che non vedono dove mettono le ruote. Le accese critiche di Fangio convincono i responsabili tedeschi ad approntare una versione più tradizionale per i circuiti meno veloci. Il debutto a Reims rappresenta un biglietto da visita abbastanza chiaro per gli avversari: Fangio e Kling dominano in lungo ed in largo, doppiando tutti gli altri concorrenti. La Maserati ha tentato di rispondere alla partenza dell'asso argentino con l'ingaggio di Ascari e del suo fido scudiero Villoresi, entrambi transfughi dalla Ferrari e momentaneamente a spasso in attesa della nuova Lancia D50. Il debutto di Alberto con la 250F è poco incoraggiante: terzo in prova, la domenica rimane a piedi per problemi alla trasmissione. Va meglio a Villoresi, che conclude al quinto posto a tre giri dal vincitore. Nemmeno il successivo Gran Premio di Gran Bretagna sembra essere molto positivo per Ascari: l'italiano viene piantato dal motore proprio nel giorno in cui Gonzalez e la Ferrari dimostrano che le Mercedes possono essere battute. Visto lo scarso feeling di Alberto con la 250F, non vi sarà un terzo tentativo. La migliore delle 8 Maserati presenti è quella di Marimon, che agguanta il terzo gradino del podio. Nei successivi GP di Germania e Svizzera le "frecce d'argento" tornano a dominare la situazione. Al Nurburgring si mette in luce Stirling Moss, ormai diventato l'uomo di riferimento del Tridente, che conquista il terzo posto in prova, mentre in gara rimane a piedi per la rottura di un cuscinetto della ruota. L'unica Maserati a vedere il traguardo è quella di Sergio Mantovani, che chiude al quinto posto, distaccato di quasi nove minuti dal vincitore Fangio. In Svizzera, Moss è ancora terzo in prova, ma in gara lo tradisce la pompa dell'olio. La 250F migliore è quella di Mieres, che vede la bandiera a scacchi al terzo posto, davanti alle monoposto gemelle di Mantovani e Wharton. Il Gran Premio d'Italia regala una momentanea illusione quando Moss prende la testa della corsa davanti a Fangio, costretto a darsi una calmata in seguito ad un paio di uscite di pista senza conseguenze. A fregare il giovane pilota inglese è ancora la lubrificazione, che lo costringe a perdere 44" secondi ai box per un rifornimento d'olio. Ributtatosi nella mischia, Stirling dimostra di poter ancora recuperare il tempo perduto sul campione argentino, ma la pressione dell'olio torna a calare pericolosamente e deve mollare l'osso: con quello che gli resta da far girare chiude al decimo posto, sopravanzato dalle Maserati di Mantovani e Rosier. In Spagna, sul circuito di Pedralbes, ancora una volta il dominio delle W196 viene interrotto: poco male, perché Fangio, anche grazie alle due vittorie ottenute con la Maserati, ha già largamente conquistato il suo secondo Campionato del Mondo. La protagonista è la tanto attesa Lancia D50, che grazie alle doti di guida di Ascari prende agevolmente il largo sugli avversari, prima che un guasto gli tolga la gioia della vittoria. Va in testa Hawthorn su Ferrari, tallonato dalla Maserati di Harry Schell, mentre Moss è alle prese con il suo abituale "téte à téte" con la pompa dell'olio. Hawthorn, a dispetto del suo ostentato papillon e dello stile inappuntabile, in pista è notoriamente poco signore e non ci pensa un attimo a spedire il povero Schell fuori pista. Il secondo gradino del podio va così alla 250F di Luigi Musso, il giovane campione romano che la Maserati si è costruito praticamente in casa. Per la Maserati il 1955 è un anno di vacche magre: Moss raggiunge Fangio alla Mercedes e il Tridente fa affidamento su Schell, Behra, Perdisa e Musso, ma il miglior risultato sarà il terzo posto ottenuto da quest'ultimo al GP d'Olanda. Il resto è polvere. I continui aggiornamenti tecnici, infatti, non bastano a fermare le Mercedes, che si aggiudicano quattro Gran Premi con Fangio e uno con Moss. Sfugge soltanto il GP di Montecarlo, che va alla Ferrari 625 di Trintignant. Nel corso dello stesso Gran Premio, Ascari finisce in mare alla chicane del porto con la sua Lancia D50: verrà ripescato indenne, ma qualche giorno dopo Alberto perderà la vita in una sessione di prove a Monza, al volante di una Ferrari. Unica nota positiva, a fine anno la Mercedes si ritira dalle corse per manifesta superiorità. Fangio si ritrova sul mercato e potrebbe anche tornare in Maserati per riprendere il discorso interrotto nel 1954: conosce la macchina e sa che l'ambiente familiare di viale Ciro Menotti è congeniale al suo carattere. La sua scelta per la stagione successiva lo porta, però, a Maranello, dove il Commendator Ferrari, con l'aiuto della Fiat, ha rilevato tutto il materiale da corsa della Lancia, che ha detto basta all'attività agonistica dopo la tragedia di Ascari. L'argentino sa benissimo che, fuori le Mercedes, la vettura da battere è la D50. Ferrari e Fangio non si amano, ma in quel momento hanno bisogno l'uno dell'altro: l'unione di convenienza porterà tante vittorie, ma anche strascichi di polemiche velenose. Alla corte del cavallino approda anche Luigi Musso. In Maserati cercano di mettere in guardia il giovane pilota romano dall'ambiguità che spesso caratterizza l'ambiente della Ferrari, ma Luigi non resiste al canto delle sirene e cambia squadra. In compenso, alla direzione sportiva della Maserati arriva Nello Ugolini, transfuga dalla Ferrari, e Stirling Moss, anche lui orfano della Mercedes, che va ad affiancare l'ex motociclista belga Jean Behra: a questi tre uomini è affidato l'arduo compito di portare a casa l'agognato titolo. Le ostilità si aprono in Argentina, a casa di Fangio: ovviamente vince lui, ma le cose non filano lisce come si sperava. Causa problemi al motore l'argentino deve farsi prestare la monoposto da Musso, con il quale divide il punteggio. La Maserati perde velocemente Moss per problemi al motore, ma va in testa per qualche giro con Carlos Menditeguy, prima che gli ceda il semiasse. Fangio riprende la testa della corsa e conquista la vittoria davanti alla Maserati di Jean Behra e a quella di Mike Hawthorn, gestita dall'Owen Racing Organisation. Il successivo Gran Premio di Montecarlo è teatro di una durissima battaglia tra Moss e la D50 di Fangio, poi costretto ad abbandonare per noie alle sospensioni e a salire sulla monoposto di Collins. L'argentino riesce a piazzarsi alle spalle di Stirling, seguito a sua volta da un'efficace Jean Behra. In Belgio la coppia Ferrari-Fangio scoppia: lanciato verso una sicura vittoria, Juan Manuel deve abbandonare la corsa, lui dice perché qualcuno si è dimenticato di rabboccargli l'olio. Nella sua testa si tratta di un sabotaggio finalizzato a far vincere il compagno di squadra Collins. Nonostante le disgrazie dell'avversario, in Maserati non si ha molto da ridere: Moss, dopo aver conquistato la seconda posizione sulla griglia di partenza, si ritrova a spasso per la perdita di una ruota. Behra, sotto tono, conclude settimo e soltanto il terzo posto di Cesare Perdisa consente qualche timido sorriso. Nessun miglioramento nel successivo Gran Premio di Francia: Moss, dopo una non brillante qualificazione, è costretto a ritirarsi per noie al cambio. Behra agguanta di forza il terzo posto, ma la vittoria va ancora una volta a Collins, mentre Fangio è costretto al ritiro in seguito ad un misterioso incidente: un guasto al manometro della benzina causa uno schizzo che lo colpisce in pieno volto. L'argentino si sente sempre più al centro di una congiura, ma nel successivo Gran Premio di Gran Bretagna la vittoria torna a sorridergli, mentre per Moss continua il calvario. Forte della pole position, Stirling cerca di rompere la striscia negativa, ma la sua 250F lo tradisce ancora con la rottura del semiasse. La migliore delle Maserati è ancora quella di Jean Behra, che conclude al terzo posto. Al Gran Premio di Germania Moss rivede finalmente il traguardo, ma in seconda posizione, a 46" dal vincitore Fangio. Behra, invece, continua con il suo abbonamento alla terza posizione. Al Gran Premio d'Italia, ultimo atto della stagione, Moss è ormai spacciato per la corsa al titolo, diventata una questione tra Fangio e Collins, ma una vittoria è sempre una vittoria. Alla partenza hanno la meglio Castellotti e Musso, entrambi su Ferrari D50, ma dopo quattro giri sono costretti al box per cambiare la posteriore sinistra. Per un giro passa in testa Fangio, che deve poi cedere a Moss e alla Vanwall di Schell. Costretto al ritiro per la rottura del motore, l'argentino riesce a convincere Collins ad autoescludersi dalla corsa per il campionato e a cedergli la macchina, proprio mentre Moss rientra ai box a corto di carburante. In testa va Musso, ma dopo appena due giri deve ritirarsi con la ruota anteriore sinistra quasi bloccata, restituendo la prima posizione a Moss, mentre Fangio sta prepotentemente rimontando alle sue spalle: i due taglieranno il traguardo staccati di una manciata di secondi. Per la stagione 1957 Moss abbandona la Maserati per approdare alla Vanwall: la monoposto inglese ha un telaio innovativo studiato con l'aiuto di Colin Chapman e un'aerodinamica molto curata, frutto delle intuizioni di Frank Costin. Spinta da un motore Norton, la macchina ha raggiunto un ottimo livello di competitività e sembra potersi inserire tra i contendenti per il titolo 1957. Al posto di Moss arriva Fangio: consapevole di aver vissuto una stagione caratterizzata da troppi favori da parte dei compagni di squadra, cerca una sorta di rivincita morale e la maniera per buttarsi alle spalle le polemiche che hanno caratterizzato il suo anno in Ferrari. La stagione inizia in Argentina, ed è un trionfo: quattro Maserati ai primi quattro posti. La vittoria va a Fangio, seguito da Behra, Menditeguy e Schell. Moss, che ha accettato di correre ancora una volta con la 250F in attesa della Vanwall, chiude ottavo pur siglando il giro più veloce. Guai per i piloti Ferrari che lottano con noie alla frizione. A Montecarlo vince ancora Fangio, facilitato dai ritiri di Moss, Collins e Hawthorn, eliminatisi in seguito ad un incidente. Alle spalle dell'argentino arriva Brooks con la Vanwall, ma al terzo posto si piazza la Maserati di Masten Gregory. A proposito di questa corsa, curioso l'aneddoto riportato da Leo Turrini nella sua biografia di Enzo Ferrari: "Fangio lascia intuire che nel 1957, pur di danneggiarne la concentrazione alla vigilia della gara di Montecarlo, proprio Ferrari avrebbe convinto una famosa attrice ad offrirsi all'argentino per una bollente notte d'amore. Offerta per altro respinta dal pilota (commento di Enzo al riguardo: "Se davvero avessi avuto a disposizione quella donna , me la sarei tenuta, altro che mandarla da lui")." In Francia, Fangio prende il largo in campionato grazie alla terza vittoria consecutiva, mentre Schell e Behra concludono rispettivamente al quinto ed al sesto posto. In ripresa le Ferrari, che strappano il secondo posto con Musso. Al GP di Gran Bretagna, corso per l'occasione sul circuito di Aintree, la striscia positiva del Tridente si interrompe bruscamente. La trasferta si conclude con un disastro: Fangio si ritira per rottura del motore, Menditeguy per il cedimento della trasmissione, Behra per quello della frizione, mentre a Schell parte la pompa dell'acqua. La vittoria va ad un magnifico Moss, che taglia il traguardo con 25" su Musso. Al Nurburgring Fangio sigla quella che è considerata la più bella vittoria della sua carriera: forte della pole position, al via l'argentino prende il largo sugli avversari, ma una sosta non prevista per cambiare le gomme lo relega a circa 50" dalle Ferrari di Hawthorn e Collins. Fangio si butta nella mischia e si produce in una favolosa rimonta che lo riporta in testa, vincendo per il terzo anno consecutivo il GP di Germania. Si racconta che Fangio fosse l'unico pilota a passare in pieno nella cunetta prima del traguardo, facendo saltare la monoposto da un ciglio all'altro della pista con millimetrica precisione e guadagnando così manciate di secondi sugli avversari. Soltanto per il 1957, il rinomato Gran Premio di Pescara ottiene la validità per il Campionato di Formula 1. Sul circuito abruzzese s'impone Moss davanti a Fangio, Schell e Masten Gregory, quest'ultimo con la 250F della Scuderia Centro Sud. La stagione si chiude a Monza: Moss parte come un fulmine e s'installa alla testa della corsa, ma dopo quattro giri si deve arrendere alla Maserati 12 cilindri di Behra. Moss si riprende il maltolto quando al pilota belga cede il motore. Fangio è l'unico a reggere il ritmo infernale della Vanwall, ma deve accontentarsi del secondo posto, davanti alla Ferrari di Von Trips. Fangio conquista il quinto campionato della sua carriera e la Maserati può ritirarsi dopo aver raggiunto l'obiettivo tanto a lungo sognato ed inseguito. Due monoposto della scuderia vengono vendute a Fangio e Menditeguy, che intendono correre da privati nella stagione '58. Il campione argentino non va mai oltre il quarto posto e dopo il tragico GP di Francia, in cui perde la vita Musso, capisce di averne abbastanza delle corse e si ritira. Per la 250F la strada è ancora lunga, sempre più indietro negli schieramenti, sempre più afflitta da acciacchi. Eppure sono ancora molti i piloti che si affidano ad essa per tentare l'avventura della Formula 1: qualcuno per divertimento, altri, giovani e con pochi mezzi, nella speranza di mettersi in luce. Non basta la rivoluzione delle piccole e veloci monoposto a motore centrale per spazzare via la vecchia tigre. La parola fine arriva dal cambiamento dei regolamenti, che prevedono per il 1961 l'uso di motori da 1500cc. Al GP USA del 1960 l'ultima partecipazione: Bob Drake taglia il traguardo al 13° posto, staccato di sette giri dal vincitore. La signora è diventata veramente troppo vecchia.
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