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Notte fonda: l'aria fredda e pungente non scoraggia le centinaia di persone che si sono radunate lungo il tortuoso tracciato della corsa. Imbacuccati nelle loro giacche a vento, i capi coperti da buffi berretti di lana, ingannano il tempo chiacchierando a crocchi: vengono dai posti più disparati, spesso non parlano nemmeno la stessa lingua, ma hanno in comune la stanchezza negli occhi, il desiderio di vivere questa grande festa e una smisurata passione. Calpestano la neve che ricopre il terreno e scricchiola come una fragrante glassa sotto il peso delle loro scarpe pesanti, si spostano da un'altura all'atra ai lati della strada, in cerca di una posizione ideale che qualche volta rimane un'utopia, ma soprattutto tendono l'orecchio verso l'oltre, da dove magicamente spunteranno sogni ed emozioni. Improvvisamente un rombo lontano annuncia l'inizio della festa: un motore che ruggisce in lontananza, diretto dalla maestria di un piede pesante e dalla prontezza di riflessi di un omino incollato al suo seggiolino. La gente tace improvvisamente ed ascolta la musica sempre più vicina, nell'attesa che di là dalla curva sbuchi la belva. Potenti fari di profondità rompono il buio seguendo traiettorie isteriche e psichedeliche, finché una Stratos con i colori Alitalia compare dal nulla in un controsterzo controllato e si avventa sul breve rettilineo fino alla successiva curva, quando al pilota toccherà ancora pennellare con colpi sapienti e decisi. Il sei cilindri Dino urla tutta la sua potenza, le larghe gomme artigliano il terreno alzando schizzi di gloria sulle forme della vettura. Intorno è una ridda di urla e di flash: ognuno cerca di fermare il tempo indeterminatamente, anche attraverso l'illusione di una lastra fotografica. Ma la regina è già andata: due luci rosse come un tramonto di fuoco che si allontanano all'orizzonte, fino a scomparire nel nulla. Rimane ancora per qualche minuto il rombo del motore, gustato come l'ultimo sorso di un buon vino, nella consapevolezza che poi il bicchiere rimarrà vuoto. Questo è quanto ho immaginato nel momento in cui ho deciso che dovevo scrivere qualcosa sulla Stratos: l'icona seducente di una vettura straordinaria e di un'epoca che molti rimpiangono. In realtà è soltanto l'immagine più smagliante di una storia complessa, piena di colpi di scena e di contraddizioni, attorno a cui ruotano i principali protagonisti dell'automobilismo italiano dell'epoca. In primo luogo occorre descrivere l'irripetibile esperimento di chimica umana, che ha visto personalità differenti, con obiettivi ed interessi specifici da perseguire, incontrarsi per dar vita ad una simile creatura. Ricostruito il parto travagliato della vettura, ci si ritrova a fare i conti con la sua anima metallica, tutta genio e sregolatezza, che tra vizi e virtù delinea un carattere deciso e per nulla incline al compromesso. Soltanto comprendendo che la Stratos è stata prima di tutto una vettura da corsa, appositamente studiata per i massacranti rally dell'epoca, si può trovare la chiave per capire una carriera commerciale disastrosa, opposta ad una sportiva ricca di successi di grande rilievo, che secondo molti avrebbe potuto essere ancora più grande se il programma non avesse perso prematuramente forza. Vero o falso, ciò che la Stratos ha dato è più che sufficiente per collocarla nell'olimpo mitologico dell'automobilismo moderno, non solo sotto il profilo sportivo ma anche estetico.
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Era il 1970 e in Via San Paolo a Torino, storica sede della Lancia, si lottava faticosamente per uscire da una difficile crisi che perdurava da diversi anni. Nel corso dell'anno precedente l'azienda era passata dalle mani della famiglia Pesenti alla Fiat, ponendo fine ad una storica rivalità tutta torinese tra i due marchi. Ogni azione venne pagata una lira, cifra del tutto simbolica che rispecchiava il pauroso stato di indebitamento della Lancia: all'epoca si parlava di circa 130 miliardi, inghiottiti da progetti ed investimenti sbagliati. La strategia che doveva portare al rilancio del marchio passava obbligatoriamente attraverso il rinnovo della gamma, ma poteva avvalersi di un'importante leva promozionale: infatti, l'odissea vissuta dalla Lancia in quegli anni non aveva intaccato la Squadra Corse, autentico gioiello della casa non soltanto dal punto di vista tecnico ed organizzativo, ma anche per le risorse umane di cui disponeva. L'attività della Squadra era concentrata principalmente nei rally con quella grande mattatrice che è stata la Fulvia HF 1.600 ed una serie di giovani e promettenti piloti, tra cui un Sandro Munari alla soglia della maturità agonistica. Tuttavia anche la Squadra Corse si trovava davanti ad un problema fondamentale: la Fulvia, benché maneggevole e robusta, iniziava a sentire il peso degli anni e teneva testa con sempre maggiori difficoltà alle più giovani Alpine Renault a trazione posteriore e motore montato a sbalzo. I francesi ci si erano messi d'impegno e se con la Fulvia si poteva tamponare momentaneamente il danno, occorrevano soluzioni per il futuro. Da un'altra parte di Torino c'era, invece, chi non pativa la crisi e si guardava attorno, pronto a cogliere ogni opportunità per continuare a rimanere al vertice: all'epoca Nuccio Bertone si era innamorato del motore centrale, dopo il fortunato episodio della Lamborghini Miura, partita come esperimento e diventata punto di riferimento nel settore delle gran turismo, sia per quanto riguarda la meccanica, sia per lo stile. Bertone desiderava continuare ed ampliare il tema delle vetture a motore centrale ed allo stesso tempo cercava un ponte per entrare in contatto con la Lancia nel momento in cui ci si aspettava un rilancio dell'azienda. Fu proprio lui a compiere il primo decisivo passo perché la storia della Stratos facesse il suo corso. Davanti alle difficoltà ad agire ufficialmente attraverso la casa, Bertone acquistò una Fulvia HF di seconda mano, preparandosi a sfruttarne la meccanica per un nuovo e sensazionale prototipo da presentare al Salone di Torino del 1970. Il progetto venne affidato a Marcello Gandini, che già aveva mostrato tutto il suo genio con la Miura. L'obiettivo non era soltanto quello di costruire una show car, ma una vettura con elevate doti dinamiche per scandagliare le problematiche del motore centrale applicato alle corse su strada. Su un telaio in acciaio scatolato ed alleggerito fu montato il classico 4 cilindri a V stretta (115 CV a 6.000 giri/min.) ed il cambio a 5 marce della Fulvia HF 1.600 in posizione centrale e longitudinale, cercando di privilegiare un baricentro basso. Sempre nel tentativo di ottenere una vettura estremamente reattiva, il passo era volutamente corto, 2.220 mm soltanto, mentre la maggiore larghezza della carreggiata posteriore rispetto all'anteriore (1.458 mm contro 1.345 mm) doveva favorire la trazione e la tenuta di strada. La soluzione del motore posteriore consentiva poi un muso più corto ed un abitacolo più avanzato con ripercussioni decisive sull'aerodinamica e sulla distribuzione dei pesi, che in questo caso doveva essere concentrata sull'asse posteriore per rendere più dinamica la vettura. Questo insieme telaio-motore venne vestito con una carrozzeria sensazionale dalle soluzioni del tutto originali ed in qualche caso fin troppo estreme. Ancora oggi, a distanza di trent'anni, la realtà non è riuscita ad assorbire simili forme e concetti, ed il prototipo, poi conosciuto come Zero, mantiene tutta la sua freschezza innovativa. La ridotta altezza della vettura (solamente 840 mm), ottenuta sdraiando letteralmente il pilota nel posto guida, sottolinea la differente larghezza delle due carreggiate. La fiancata, caratterizzata da una limitata vetratura laterale, parte dalla semplice e leggera linea a cuneo dell'anteriore per assumere forza e corpo verso il posteriore, muscoloso grazie ai giochi della lamiera scolpita. I passaruota posteriori, invece di assecondare con un arco gli pneumatici, li tagliano fuggendo in modo rettilineo verso la coda rastremata. La vista posteriore è dominata dalla grande griglia traforata di evacuazione del vano motore, incorniciata da una fascia continua luminosa che sostituisce i normali gruppi ottici. L'assenza di paraurti lascia a vista i due generosi terminali di scarico, il cambio longitudinale e parte del sistema sospensivo. Il cofano motore è costituito da una serie di triangoli sovrapposti di grandezza decrescente ed è incernierato lateralmente. L' anteriore è una semplice superficie piatta che parte dai fari, in forma di sottile striscia luminosa continua, per terminare dolcemente con l'inizio del tetto. Tale superficie e interrotta da un trapezio rovesciato di gomma nera, che accoglie al centro il caratteristico stemma rotondo della Lancia, e da un altro trapezio più grande che costituisce insieme il parabrezza e lo sportello di accesso all'abitacolo. Per accedere al posto guida occorre agire sul grosso logo Lancia, che nasconde la serratura, e sollevare lo sportello, incernierato in alto. Come la scena di un teatrino, appare l' abitacolo, a prima vista un po' inquietante per le sue ridotte dimensione. Oltre alla posizione pressoché sdraiata che i sedili impongono a pilota e passeggero, ci si trova di fronte ad un generoso piantone dello sterzo: soltanto ritraendolo è possibile inserirsi al posto guida, ma questo non è che uno dei tanti segreti. Per esempio, istintivamente si cerca il quadro strumenti davanti al pilota, laddove esso è collocato nella stragrande maggioranza delle vetture al mondo, ma l'unica cosa che si riesce a trovare sono i tre pedali. Pensare "Accidenti, non c'è neanche il tachimetro!" e giustificare la dimenticanza del progettista con un "D'altra parte è un prototipo, cosa si può pretendere!" è questione di un attimo. Poi si gira la testa svagatamente ed eccolo lì, incassato in un piccolo vano sul passaruota, a lato del pilota, in una posizione non propriamente felice. I normali strumenti analogici sono confezionati in un sofisticato e futuribile design, tale da far pensare al quadro strumenti di un aereo o di un sottomarino nucleare. Rimane imperscrutabile il significato di certi indicatori. Il vano bagagli è un'altra fonte di grattacapi: inutile cercarlo in luoghi tradizionali, perché per accedervi occorre ribaltare lo schienale dei sedili. Non è molto ampio e al suo interno si trova anche l'alloggiamento per la ruota di scorta. Pur essendo molto scenica e caratterizzata da soluzioni originali, la vettura, presentata al Salone di Torino del 1970, non suscitò grandissimo interesse. Tuttavia, con un'abile strategia di comunicazione, la Bertone concesse il prototipo per una serie di prove e servizi fotografici, in modo che i maggiori giornali del settore finirono per parlarne e darvi spazio. A questo punto il pesce abboccò: i dirigenti Lancia trovarono interessante la Stratos, come spunto a cui ispirarsi per il progetto di una vettura da impiegare esclusivamente nelle corse. La primavera successiva alla presentazione, l'ingegner Piero Gobbato, direttore generale della Lancia con un passato alla Ferrari, telefonò personalmente a Nuccio Bertone chiedendo di vedere la vettura. Il dottor Beppe Panico, dirigente della Bertone, ricorda che lui con lo stesso Nuccio Bertone alla guida del prototipo, giunsero all'ingresso della Lancia in via San Paolo a Torino. La sbarra accanto alla guardiola era alta circa un metro, mentre la Zero misurava un'altezza di 84 cm: il tempo di fare questa constatazione e la macchina era già entrata clandestinamente all'interno dello stabilimento, richiamando con il suo rombo i dirigenti della Lancia. Piero Gobbato riassume così l'esito dell'incontro: "Nuccio Bertone era arrivato in Lancia con quella macchina, guidandola lui; abbiamo fatto fatica a tirarlo fuori, io ho fatto fatica a entrare. Mi sono entusiasmato e mi sono detto: questo signore che in definitiva fa carrozzerie e che vuol provare anche con un motore inadatto, ci ha dato un'idea." Ovviamente i dirigenti della Lancia chiesero che quell'idea fosse portata ad un livello di praticità maggiore. In realtà non fu quello il vero problema nella progettazione della Stratos da corsa, ma l'autentica lotteria riguardante quale motore utilizzare, giacché il 1.600 della Fulvia era ormai alla frutta. Per gli obiettivi che si erano posti la Squadra Corse della Lancia e la Carrozzeria Bertone, occorreva un propulsore ben più potente. Si crearono così due fronti: chi reputava necessario, per evidenti problemi d'immagine, che si scegliesse un motore all'interno della gamma Fiat (si parlava di riesumare il sei cilindri a V utilizzato in passato sulle Flaminia e le Aurelia, troppo vetusto, oppure adottare il quattro cilindri della berlina 130, troppo pesante) e chi era favorevole all'utilizzo del Ferrari Dino a sei cilindri. Tra le altre cose, Bertone disponeva già di questa unità, perché montato sui Coupé Dino che costruiva nello stabilimento di Grugliasco. Quindi si trattava soltanto di chiederne l'utilizzo anche per la Stratos. Si incaricò della missione lo stesso Gobbato ed Enzo Ferrari concesse con malagrazia l'uso del suo motore in cambio di una sostanziosa somma di denaro. Intanto, il prototipo statico della Stratos definitiva era stato presentato al salone di Torino del 1971, laddove era partita l'avventura. Marcello Gandini, incaricato dello sviluppo del progetto, aveva salvato i concetti base espressi nella Zero: passo corto (2.180 mm), carreggiata posteriore più larga (1.460 mm contro 1430 mm), distribuzione dei pesi concentrata per il 63,1% sul posteriore, abitacolo avanzato, linea a cuneo con un frontale notevolmente aerodinamico e ridotto, possibilità di montare gomme di misura diversa senza variare i passaruota. Per il telaio fu scelta una monoscocca in acciaio, chiuso da un arco di rinforzo con funzione di roll-bar, mentre al posteriore un telaio ausiliario tubolare accoglieva il motore, coniugando leggerezza e rigidità torsionale. La ciclistica era costituita da un sistema misto: sospensioni a parallelogramma sull'anteriore e McPherson al posteriore, imposto dall'utilizzo del motore trasversale che non consentiva uno schema analogo all'avantreno. Il tutto era coadiuvato da molle elicoidali, ammortizzatori telescopici e barre antirollio su entrambi gli assi. Su una base dalle caratteristiche così estreme, Gandini disegnò una carrozzeria che coniugava la facilità di accesso agli organi meccanici, necessaria ad una vettura da corsa, con una linea da prototipo ancora oggi impressionante, nonostante siano ormai passati trent'anni dalla sua ideazione. La linea delle fiancate descrive una sorta di arco che parte dall'esile frontale e prosegue rettilineamente verso il suo culmine, poco prima del vano motore, per poi ridiscendere dolcemente in direzione della coda. Colpiscono gli sbalzi ridotti (885 mm ant. e 645 mm post.), nonché la convessità delle lamiere che sfumano verso il fondo del pianale, interrotte soltanto dalla nervatura centrale. Come già sulla Zero, all'anteriore leggero ed aerodinamico si contrappone un posteriore massiccio e muscoloso, mentre la lamiera domina sulle limitate superfici vetrate. I larghi passaruota, risultano invece quasi estranei e sovrapposti alla linea della vettura. Quello anteriore spezza addirittura la carrozzeria, lasciando il palcoscenico alle generose gomme ed ai cerchioni a cinque razze in lega leggera, che lasciano intravedere i dischi autoventilati dell'impianto frenante. Gli attacchi a sgancio rapido e il taglio dei cofani integrali ribadiscono ancora una volta la natura corsaiola della Stratos. Sul frontale domina la larga bocca di raffreddamento dei radiatori, affiancata da due essenziali nicchie rettangolari per le luci di posizione. I fari sono del tipo a scomparsa per non rovinare l'aerodinamica del cofano, sulla cui superficie è ricavata la griglia di evacuazione del calore dal vano anteriore, che oltre ai pacchi radianti ospita anche la gomma di scorta. Il parabrezza assomiglia quasi a quello di un caccia: arcuato e molto avanzato, trova il suo limite in sottili montanti convergenti. La sua forma avvolgente e studiata per dare la massima visibilità al pilota e consentirgli una giusta percezione degli ingombri. Il posteriore concede ben poco all'estetica: spiccano due funzionali gruppi ottici tondi, affiancati da due luci rettangolari per la retromarcia. La parte bassa accoglie una larga bocca di evacuazione del calore dal vano motore e i generosi terminali di scarico, tutto all'insegna della massima praticità. Il lunotto posteriore è protetto da una veneziana in plastica nera, presente su altre gran turismo progettate da Bertone in quel periodo. Studiata in galleria del vento, questa linea offriva un basso coefficiente di penetrazione, consentendo ai tecnici della Squadra Corse un ampio margine per sistemare il carico aerodinamico a proprio piacimento. Furono così aggiunti due spoiler: uno generosissimo al posteriore ed un altro all'anteriore, più un deflettore sul tetto, sacrificando ancora una volta l'equilibrio estetico della linea all'esigenza di raggiungere determinati parametri di efficienza. L' abitacolo risulta molto spartano ed essenziale. Né è un esempio il quadro strumenti rettangolare che raccoglie tutti i principali indicatori analogici: vi si trovano tachimetro, contagiri, manometro e termometro dell'olio, termometro dell'acqua, amperometro, oltre all'indicatore della benzina. Il volante a quattro razze ha una dimensione piuttosto ridotta ed ha un aspetto molto sobrio e pratico, così come la corta leva del cambio. Sul pannello porta si trovano soltanto la maniglia della serratura, il pomello e la guida di scorrimento che permettono di abbassare velocemente il finestrino. Leggero ed estremamente pratico, questo sistema non consente però al finestrino di annegare completamente nella portiera, perché ruotando su un perno ne rimane sempre un parte in vista. Nel complesso la Stratos da l'idea di una tigre con i muscoli contratti, pronta a balzare con uno scatto rabbioso verso una preda ideale: la strada. Come nelle credenze di antiche civiltà, animali diversi si possono accoppiare dando origine a bestie stranissime e mitologiche. In questo caso la tigre venne incrociata con il cavallino rampante, assicurando alla Stratos un avvenire leggendario. Per la verità quest'operazione non fu così semplice per problemi di genetica: il sei cilindri Dino a V di 65° gradi rappresentava l'ultima generazione di una famiglia blasonata nata negli anni '50 e fortemente voluta dal figlio di Enzo Ferrari che, tuttavia, non ne vide la realizzazione per la sua prematura scomparsa. Di qui il suo nome. Monoblocco in ghisa e testata in lega leggera, con i suoi 2.4119,2 cc offriva 195 CV a 7.600 giri/min. (in versione base) ed una coppia massima di 23 Kgm a 4.300 giri/min., ma portava con se anche qualche difetto: in curva la vaschetta dei carburatori non era alimentata a sufficienza per un effetto di centrifugazione. Alla Lancia dovettero ridisegnare il collettore di aspirazione, dopo aver scartato l'idea dell'iniezione meccanica per una ragione di costi. Ma se fin qui ci si poteva mettere le mani, non c'era soluzione all'altro grande problema: essendo concepito per essere montato in posizione trasversale, il cambio a cinque marce era in blocco con il motore. Oltre a costituire un limite per la scelta del tipo di sospensione, la comparsa di problemi alla trasmissione in gara significava quasi sempre il ritiro perché, il regolamento rally escludeva la sostituzione dei motori. Nonostante questi piccoli problemi, l'accoppiata Ferrari-Lancia costituiva una base di lavoro veramente straordinaria: con un rapporto peso/potenza di 5,2 kg/CV e le doti dinamiche che possedeva l'intera costruzione, la Stratos offriva un potenziale mai visto prima nel mondo dei rally. Ma prima di tuffarci nelle mirabolanti avventure sulla terra e l'asfalto di mezzo mondo, occorre soffermarsi sulla grande nota dolente di questa vettura: una carriera commerciale davvero infausta. si trovano soltanto la maniglia della serratura, il pomello e la guida di scorrimento che permettono di abbassare velocemente il finestrino. Leggero ed estremamente pratico, questo sistema non consente però al finestrino di annegare completamente nella portiera, perché ruotando su un perno ne rimane sempre un parte in vista. Nel complesso la Stratos da l'idea di una tigre con i muscoli contratti, pronta a balzare con uno scatto rabbioso verso una preda ideale: la strada. Come nelle credenze di antiche civiltà, animali diversi si possono accoppiare dando origine a bestie stranissime e mitologiche. In questo caso la tigre venne incrociata con il cavallino rampante, assicurando alla Stratos un avvenire leggendario. Per la verità quest'operazione non fu così semplice per problemi di genetica: il sei cilindri Dino a V di 65° gradi rappresentava l'ultima generazione di una famiglia blasonata nata negli anni '50 e fortemente voluta dal figlio di Enzo Ferrari che, tuttavia, non ne vide la realizzazione per la sua prematura scomparsa. Di qui il suo nome. Monoblocco in ghisa e testata in lega leggera, con i suoi 2.4119,2 cc offriva 195 CV a 7.600 giri/min. (in versione base) ed una coppia massima di 23 Kgm a 4.300 giri/min., ma portava con se anche qualche difetto: in curva la vaschetta dei carburatori non era alimentata a sufficienza per un effetto di centrifugazione. Alla Lancia dovettero ridisegnare il collettore di aspirazione, dopo aver scartato l'idea dell'iniezione meccanica per una ragione di costi. Ma se fin qui ci si poteva mettere le mani, non c'era soluzione all'altro grande problema: essendo concepito per essere montato in posizione trasversale, il cambio a cinque marce era in blocco con il motore. Oltre a costituire un limite per la scelta del tipo di sospensione, la comparsa di problemi alla trasmissione in gara significava quasi sempre il ritiro perché, il regolamento rally escludeva la sostituzione dei motori. Nonostante questi piccoli problemi, l'accoppiata Ferrari-Lancia costituiva una base di lavoro veramente straordinaria: con un rapporto peso/potenza di 5,2 kg/CV e le doti dinamiche che possedeva l'intera costruzione, la Stratos offriva un potenziale mai visto prima nel mondo dei rally. Ma prima di tuffarci nelle mirabolanti avventure sulla terra e l'asfalto di mezzo mondo, occorre soffermarsi sulla grande nota dolente di questa vettura: una carriera commerciale davvero infausta.
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Coccolata dai suoi piloti, adorata dalle folle che ad ogni gara si assiepavano sui percorsi di gara, la Stratos trovò nei concessionari Lancia ed in qualche cliente i suoi unici detrattori. Molti i fattori che contribuirono all'insuccesso commerciale di questa vettura: in primo luogo va ricordato che la Stratos era nata come una vera e propria vettura da corsa ed in Lancia, all'epoca della sua concezione, nessuno pensava a derivarne una versione di serie destinata al mercato. A scombinare i piani dei dirigenti torinesi ci si mise la F.I.S.A. (l'attuale F.I.A.), stabilendo che la partecipazione alle corse rally doveva essere limitata alle vetture GT Gruppo 4, ovvero prodotte in almeno 500 esemplari. Poco ci mancò che l'intero programma Stratos venisse mandato all'aria, anche perché non era uno scherzo mettere insieme un programma industriale e commerciale per una simile vettura. Prima di tutto occorrevano risorse finanziare e queste potevano venire unicamente dalla Fiat, piuttosto contrariata perché sui campi da gara le 124 Sport Spider avevano iniziato a prenderle dalla nuova arma Lancia: Gobbato ricorda le pressioni ricevute per chiudere la baracca. Non si perse di coraggio e partì all'attacco per ottenere i 500 motori da Enzo Ferrari, ma passare dalla fornitura di qualche motore per un uso agonistico a simili numeri non era una cosa semplice. Per giunta, anche Ferrari dovette ricevere qualche pressione da Torino ed il risultato fu un rifiuto netto ad ampliare la fornitura. Gobbato ricorda di essere stato obbligato ad andare direttamente dall'avvocato Gianni Agnelli ad esporre le difficoltà incontrate: "Dissi che non capivo perché mi venisse negata la possibilità di utilizzare il motore Ferrari, che fin dal settembre '69 era venuta a far parte della Fiat, e lo pregai di autorizzarmi, se fosse stata confermata la disposizione negativa, ad arrangiarmi in modo diverso. Ci fu un moto di meraviglia da parte dell'Avvocato che chiese: "Cosa vuol dire arrangiarmi?". All'epoca la Lancia stava studiando una vettura due litri che, per accordo Fiat-Citroen, avrebbe dovuto utilizzare il noto sistema idro-pneumatico della casa francese. In quegli anni la Citroen possedeva la Maserati, pronta a lanciare sul mercato la Merak con un motore 8 cilindri da 3.000 cc. Inaspettatamente l'avvocato diede il suo assenso affinché Gobbato tentasse questa strada. Un "via libera " per la verità malizioso, perché le cose tra Fiat e Citroen non stavano andando bene, ed infatti la proposta di accordo andò miseramente a rotoli. Nonostante questo, il contatto tra Maserati e Lancia continuò e l'offerta dei francesi si ampliò perché oltre al 3.000 della Merak, la Maserati, nella persona dell'ingegner Malleret, era disponibile a fornire il 4.200 della Quattroporte. A questo punto fu Enzo Ferrari, sempre informato sulle mosse del vicino concorrente, a chiudere inaspettatamente la partita. Ricorda Gobbato: "Mi chiamò e disse: "Ti do i motori." Rispondo: "Scusi ma sto procedendo diversamente." "No, ma no, scherzavamo." "Un modo davvero strano di scherzare. Terminata la lunga telenovela sul motore da utilizzare, il programma di industrializzazione poté partire e nell'autunno del '74 502 esemplari di Stratos furono allineati nello stabilimento Bertone a Grugliasco per la verifica dei delegati Fia, guidati in quell'occasione da Paul Frere, noto giornalista e pilota francese. Le linee di produzione vennero immediatamente smantellate e le vetture inviate ai concessionari Lancia, che furono obbligati a ritirarle. Vendere 500 esemplari di Stratos alla mostruosa cifra di 10.725.000 lire nel clima puritano della crisi petrolifera era un'utopia, eppure gli estimatori, sedotti dall'indubbio fascino della vettura, c'erano. Molti cedettero, per scoprire poi quanto fosse difficile domare il giocattolo. Alla Lancia avevano cercato di mitigarne la natura per trasformare la Stratos in una potente quanto paciosa vettura gran turismo, ma il compromesso raggiunto non era soddisfacente. Per esempio, i giunti uniball delle sospensioni erano stati sostituiti con silent block di gomma, più confortevoli ma meno rigidi, con il risultato di amplificare l'imprevedibilità della vettura alle alte velocità. Ruoteclassiche, che ha provato la vettura nel 1998, la giudica così: "la guida è imprevedibile e difficile da farne un'auto da prendere con le molle e da condurre con gran prudenza e a velocità ragionevole. Manca di direzionalità, è molto sensibile al fondo stradale e reagisce bruscamente alle variazioni di regime del motore. In accelerazione ed in rilascio cambia l'assetto delle ruote motrici e richiede molta esperienza per controllarla perché imprevedibile. - Se non guidata più che correttamente la Stratos ha una spiccata tendenza al testa coda." Tra le altre cose, la rivista lamenta anche una certa debolezza dei freni rispetto alla potenza espressa dal motore. In definitiva, un quadro disarmante che non ha certo giovato alle vendite della vettura. Ancora oggi c'è chi ricorda di concessionarie ridotte a svendere due esemplari al prezzo di uno pur di far fuori l'odiato bidone. Se per la Stratos da corsa l'interrogativo più frequente è: "Avrebbe potuto vincere di più se la sua carriera non fosse stata interrotta prematuramente?", per la vettura di serie lo stesso si trasforma in: "Se ne sarebbero potute vendere di più se fosse stata fatta meglio?" Molti hanno intravisto dietro alle deficienze della macchina una sfiducia nell'operazione da parte dei dirigenti Fiat e Lancia, obbligati a produrre la vettura per rientrare nelle norme F.I.S.A.. Se fosse vero, costituirebbe un buon indizio per una risposta positiva al quesito. Va comunque sottolineato il contributo della Stratos e delle sue vittorie per far risorgere commercialmente il marchio Lancia dalla disgrazia.
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Il mondo delle corse rally, all'epoca del debutto della Stratos, vive un momento di profondo cambiamento: in primo luogo le lunghe maratone che hanno caratterizzato la specialità all'epoca a lasciano progressivamente il posto a speciali più brevi, intervallate da lunghi trasferimenti. In secondo luogo occorre tenere conto della montagna di soldi che comincia a cadere sulle squadre sotto forma di contratti di sponsorizzazione. Lo stesso impegno delle case è notevolmente aumentato, lasciando sempre più a margine le piccole équipe, mentre la spinta verso il professionismo porta all'estinzione della poetica figura del gentleman driver per lasciare campo a piloti a tempo pieno, assoldati a suon di ingaggi sempre più alti. In questo quadro di mutazione, la comparsa della Stratos rappresenta esso stesso un fattore di cambiamento in direzione di un'ulteriore radicalizzazione: la Stratos non è un vettura di serie modificata ed elaborata per un utilizzo in gara, ma una vera e propria arma da guerra concepita per sbancare le corse e destinata a diventare ben presto termine di paragone per la concorrenza. E dire che gli inizi non sono del tutto incoraggianti: al suo primo rally mondiale, il terribile Tour de Corse, la Stratos nei colori dello sponsor ufficiale Malboro rimedia un bel ritiro per noie alla sospensione. Misteriosi problemi di assetto condizionano anche la seconda uscita, al Rally Costa del Sol. Munari ricorda così il periodo di svezzamento della belva: " Nelle prime fasi di sviluppo era come se la vettura fosse tagliata a metà, come se ci fosse una cerniera: la metà anteriore fa una cosa e la metà posteriore un'altra. Quando partivamo la macchina era a posto, staticamente le geometrie erano a posto, ma appena in moto faceva quello che voleva." In pratica, la macchina vola sui fondi sterrati, mentre fa dannare l'anima sull'asfalto. Per venire a capo del problema ci vuole un sacco di pazienza, ma alla fine se ne individua l'origine nei fusi di snodo delle sospensioni che, per ottemperare al regolamento, sono strettamente di serie, cioè in economica lamiera stampata. Spiega ancora Munari: "Con le gomme strette sullo sterrato l'attrito ovviamente è minore, quindi lo sforzo che faceva la sospensione era minore, quindi le geometrie restavano quelle impostate da fermo. Mentre sull'asfalto con le gomme larghe l'aderenza al suolo aumentava, il portamozzo fletteva creando una torsione sulle sospensioni posteriore e tutto l'assetto veniva alterato." Dopo un inverno dedicato a uscire da questa situazione, la Stratos viene ributtata nella mischia nel 1973: Munari in coppia con Mannucci porta a casa la prima vittoria della vettura al Rally Firestone. Segue la partecipazione alla Targa Florio, dove gli avversari sono le Ferrari 312PB di Merzario-Vaccarella e Ickx-Redman, le Alfa 33 di De Adamich-Stommelen e Regazzoni-Facetti, le Porsche Carrera di Kinnunen-Haldi e Muller-Van Lennep. Sembra la sfida tra Davide e Golia, ma la Stratos si comporta egregiamente guidata dal solito Sandro Munari e dall'asso Francese Jean Claude Andruet, strappato all'Alpine Renault. Le sospensioni non danno più pensieri, ma in compenso si stacca il sedile, rendendo necessario fissarlo alla massima estensione, sopportabile per il lungo Munari, ma non per il compagno francese: il "Drago" copre così nove giri su undici (il circuito delle Madonie misura circa 72 Km), tagliando il traguardo al secondo posto, a sei minuti dalla Carrera di Muller-Van Lennep, dopo che Ferrari e Alfa Romeo hanno capitolato per ragioni diverse. A Torino si sorride. Dopo il Tour de l'Aisne, vinto da Andruet in coppia con la sua graziosa navigatrice "Biche" (in francese cerbiatta), la Stratos viene messa da parte e i piloti Lancia tornano a barcamenarsi con la vecchia Fulvia. Ricompare solo per il Tour de France, la terribile maratona transalpina: 5.688 km in totale, di cui 1.047 di velocità, 145 in salita ed il resto in strada. L'ultimo tratto non è una prova, ma un'autentica mazzata per i piloti, che devono partire alle 5 del mattino da Biarritz, puntare su Barcellona, ritornare in Francia, scavalcando per la seconda volta i Pirenei, e finalmente correre verso il trionfale arrivo a Nizza, previsto per le 22:00 del giorno successivo. La Lancia schiera due Stratos, una per Munari-Mannucci e l'altra per Andruet-"Biche". L'equipaggio francese molla per noie al motore, mentre gli italiani stringono i denti, nonostante non abbiano svolto alcuna ricognizione preventiva in vista dell'appuntamento. Il percorso è tutto da scoprire , pieno di insidie, mentre la stanchezza si accumula di giorno in giorno. Il traguardo di Nizza sorride infine a Munari e a Mannucci, e le bollicine di Champagne che sfrigolano sul palato sono una botta di vita per i vincitori. La partecipazione al Giro d'Italia di quell'anno è decisamente meno esaltante: assenti Munari e Mannucci, i due equipaggi Merzario-Sodano e Andruet-Biche collezionano ritiri per noie ai motori. Le vittorie al Costa Brava, al Firestone, al San Martino di Castrozza e al Tour de France valgono comunque il titolo europeo 1973 a Munari e Mannucci. La stagione 1974 incomincia nel caos più totale: con la crisi petrolifera molte gare sono cancellate, tra cui anche il Montecarlo, seppure non ancora valido per il mondiale. In compenso Andruet-"Biche" vincono le Ronde della Giraglia, mentre Munari ed Andruet si piazzano secondi sul ghiaccio della 24 Ore di Chamonix, rimediando una bastonata dalla Fulvia di Ballestrieri-Lampinen (ma essendo botte in famiglia fanno meno male). In realtà la Stratos avrebbe potuto vincere senza problemi di condensa all'impianto elettrico. Ancora il pilota francese, questa volta in coppia con la consueta navigatrice "Biche", si afferma al Neige et Glace, dando inizio ad una pioggia di vittorie per la Stratos: Ballestrieri-Maiga vincono il Rally di Sicilia, mentre al 4 Regioni viene infilata una doppietta con Munari-Mannucci sul gradino più alto del podio, seguiti da Ballestrieri-Maiga. Alla Targa Florio la Lancia porta due vetture, entrambe con il motore a 24 valvole, per Munari-Andruet e per Larrousse-Ballestrieri. Munari prende il controllo della gara senza difficoltà ma deve ben presto abbandonare per noie all'alimentazione. Larrousse e Ballestrieri ereditano la testa della corsa e, nonostante un principio d'incendio, riescono a mantenere la posizione fino al traguardo. Il Tour de France 1974, invece, rappresenta una battuta d'arresto: la Lancia schiera ancora due vetture, la nuova fiammante Turbo per Munari-Mannucci e la 24 valvole per Andruet-Biche. Durante il trasporto da Torino alla Francia, la bisarca perde la Turbo che si schianta al suolo in mille pezzi. Non è davvero un buon inizio, ma i meccanici guidati da Mike Parkes, ingegnere nonché ex pilota Ferrari in prestito alla Lancia, rabberciano la vettura con nuove sospensioni e motore portati in tutta fretta dalla sede. Il lavoro è pazzesco e alla fine il risultato non è dei migliori: Munari deve pregare di riuscire ad arrivare sempre all'assistenza successiva, dove i meccanici riprendono a lavorare febbrilmente, ma nello sconfinamento in Belgio un calo della pressione dell'olio costringe il "Drago" a salutare la compagnia. Rimane Andruet con una macchina a corto di preparazione, perché la gran parte dello sforzo e stato concentrato nel rimettere in sesto la Turbo: conclude al terzo posto, mentre la vittoria va alla Ligier-Maserati, che conquista l'unico risultato di rilievo nella sua carriera. A proposito della Turbo, va sottolineato che è la prima vettura italiana sovralimentata a turbina: Gianni Tonti, ingegnere della Squadra Corse ricorda che quel primitivo sistema non aveva wastegate né scambiatori di calore e la pressione veniva controllata da una semplice valvola pop-off all'aspirazione. Grossi problemi li diedero poi i carburatori: normalmente lavoravano per depressione ma, immettendo aria compressa nei condotti di aspirazione, si doveva garantirne la tenuta per evitare che la benzina schizzasse da tutte le giunture. Nonostante le difficoltà, il bar e mezzo di pressione ottenibile garantiva già un bel salto di potenza. Nell'ottobre del 1974 la Stratos riceve l'omologazione da parte della F.I.S.A e nel Mondiale Rally si accende la battaglia: fin lì le Fiat 124 hanno controllato la situazione agevolmente, ma con la calata dei lancisti la musica è destinata a cambiare. A distanza di pochi giorni dalla visita a Torino dei delegati federali, Munari sbanca il Sanremo. Meno fortunato Ballestrieri, che si trova ben presto fuori dai giochi per un incidente. Una settimana dopo è l'ora del Giro d'Italia: Munari è assente per preparare la successiva uscita nel mondiale e la scena e tutta per Andruet-"Biche" con la Turbo e per Merzario-Lurani con la 2 valvole. Pronti, partenza, via! La gara può già dirsi conclusa, con l'equipaggio francese che domina in lungo ed in largo senza ombra alcuna. Munari e Mannucci, intanto, hanno centrato un altro successo nel mondiale, questa volta al Rideau Lakes in Canada e si apprestano a fare altrettanto al Press on Regardless nel Michigan, ma la trasferta americana risulta meno facile del previsto a causa degli sbirri locali. Questi pretendono il rispetto assoluto dei limiti di velocità nei trasferimenti e quando il "Drago", in ritardo per la sostituzione di una pinza dei freni, gli sfreccia davanti alla velocità che un'auto da corsa può permettere, non ci pensano un attimo e si lanciano all'inseguimento con il loro macchinone verso l'inizio del tratto cronometrato. Ci arrivano proprio mentre il Munari sta pigiando sull'acceleratore per iniziare la speciale, ma gli sceriffi del Michigan, poco pratici di corse, interpretano il gesto come una fuga nei loro confronti. Ci vuole un sacco di pazienza per mettere le cose a posto, ma intanto Munari ha perso tempo e quando si ributta nella mischia e troppo tardi per andare oltre un quarto posto. Viene l'ora del tanto temuto Rac, con i suoi sterrati fangosi ed il percorso segreto per regolamento: Fiorio & C. sperano perché al Rideau Lakes, con le stesse caratteristiche, è andata veramente bene. In gara Ballestrieri e Lampinen sono costretti al ritiro, ma Munari, per l'occasione in coppia con Sodano anziché con l'infortunato Maiga, conduce con un paio di minuti di vantaggio. Si può vincere, ma Fiorio dice no ai colpi di testa, l'importante è il mondiale. Sia fatta la volontà del d.s. e il "Drago" si accontenta di un terzo posto. L'ultimo atto del mondiale si gioca in Corsica, su 1.320 Km di cui 370 di speciale. Gli schieramenti sono massicci e la Fiat porta 3 124, mentre la Lancia piazza Andruet e Ballestrieri con le due valvole e Munari con la 24 valvole. Partecipa poi un nutrito gruppo di Alpine, che possono ancora dire la loro. La gara è un massacro, una vera selezione, e su 100 partenti solo 12 vedono il traguardo. Vince Andruet, mentre le Fiat abbandonano, così come Ballestrieri e Munari. Nel campionato la Lancia è prima con 94 punti, contro i 69 della Fiat. Torino è divisa in due: in via San Paolo si gode, a Mirafiori si mastica amaro. All'avvio della stagione '75, le Stratos ufficiali si presentano con una nuova livrea: smettono di fumare Malboro e spiccano il volo con Alitalia. Al Montecarlo, prima tappa del mondiale, è subito Munari, nonostante il tempo da schifo. Per l'occasione la Pirelli ha portato sei tipi di gomma, mettendo il "Drago" in condizione di uscire da ogni situazione. Meno fortunati, e forse anche meno abili, gli equipaggi Andruet-"Biche" e Pinto-Bernacchini, scivolati entrambi su un infido lastrone di ghiaccio. Le Fiat 124 riprendono il loro disperato inseguimento con Mikkola, Alen e Bacchelli. In Svezia la Stratos si ripete, ma questa volta al volante non ci sono draghi né funanbolici francesi affiancati da cerbiatte, bensì un coriaceo uomo del nord: Bjorn Waldegaard. Le gomme Pirelli sono state ancora decisive per la vittoria e lo saranno altrettanto, ma per la sconfitta, nella successiva gara. Dai ghiacci della Svezia si passa, infatti, alla savana dell'Africa per un bel Safari: temendo fortemente questa gara la Lancia si è preparata con scrupolo, prima di tutto portando l'escursione delle sospensioni da 10 a 18 cm e provvedendo a montare un filtro speciale con ventola per evitare che la polvere alzata dalle ruote motrici possa danneggiare il motore. Nonostante il grande lavoro i pronostici non sono favorevoli alla Stratos perché, si dice, è una vettura troppo estrema e sofisticata, non adatta a quelle terre desolate, dove più che la velocità conta una condotta di gara prudente ed una macchina robusta. La Lancia, pronta a raccogliere la sfida, schiera tre vetture per Munari-Drews (navigatore locale), Waldegaard-Thorszelius e per l'equipaggio tutto africano Preston-Ulyate. Disgraziatamente le Pirelli non si adattano alle condizioni del terreno né alle temperature ed il solo Munari colleziona ben undici forature, mentre Waldegaard patisce anche un ritardo di tre ore per il bloccaggio del cambio. Vince Ove Andersson con quel transatlantico della Peugeot 504, mentre Munari finisce al secondo posto e Waldegaard al terzo. Tutto sommato alla Lancia sorridono, perché non hanno vinto ma sono arrivati ad un passo da quel maledetto gradino più alto del podio, ed è già un bel risultato. I giornali italiani, invece, strombazzano a caratteri cubitali "Munari perde il Safari con la Lancia" e il "Drago" ce l'ha su ancora adesso per quella storia. Rispettando le proporzioni con gli eventi, in occasioni dell'Acropoli i giornali avrebbero dovuto titolare "Disastro intermegagalattico per la Lancia in Grecia". Waldegaard si ritrova senza puntine quando è secondo, mentre il cambio provvede a lasciare a piedi sia Lele Pinto che Lampinen. Ci si consola con la vittoria al Tour de France di Darniche-Mahè, i quali hanno abbandonato l'Alpine per correre con la Stratos della Chardonnet (importatore francese della Lancia), preparata a Biella da Claudio Maglioli. In Liguria, al Sanremo, meglio che il personale Lancia non vada al Casinò, perché con il c… che si ritrovano in questo periodo si mangerebbero anche le brache. Munari e Mannucci si trovano fuori per l'impossibilità di cambiare uno pneumatico forato (la Stratos consente di caricare una sola gomma di scorta), mentre Pinto finisce a piedi per una valvola rotta. In mezzo al caos emerge Waldegaard, che vince, salvando la faccia e la posizione in classifica della Lancia. Al Tour de Corse è imperativo vincere e così è, anche se il merito va alla Stratos blu della Chardonnet, e al bravo compitino di Darniche-Mahè. Poi nuovamente il Rac, ultimo appuntamento della stagione: scendono in campo 2 Stratos per Munari e Waldegaard, più una Beta per Lampinen, ma in gara le cose vanno male. Waldegaard sembra imprendibile finché non gli si scassa il cambio. I meccanici fanno il miracolo e lo riparano, ma lui arriva con 5 minuti di ritardo al controllo orario e le sue speranze rimangono attaccate all'esile filo di un reclamo. Si ributta nella mischia con una foga furibonda ma, davanti alla maestà del regolamento, il suo rimane un esercizio di virtuosismo fine a se stesso. Il "Drago" finisce fuori strada e Lampinen conclude decimo: importa poco perché il mondiale è comunque della Lancia, con 99 punti contro 60 della Renault e 59 della Fiat. Il 1976 si annuncia con grandi novità, non tanto per la Stratos che, a parte qualche modifica allo spoiler anteriore e alle ali, rimane quella di sempre, ma nella gestione delle attività sportive all'interno del gruppo Fiat e nell'organigramma della squadra Lancia. Sul primo fronte il Gruppo dice basta alle sterili rivalità interne per una politica di partecipazioni mirate a seconda dei mercati. Dove parteciperà Lancia non ci sarà Fiat e viceversa. Dal punto di vista organizzativo Daniele Audetto lascia per andare alla Ferrari, ed il suo posto viene preso dal buon Mannucci, che abbandona il suo seggiolino accanto al "Drago". Fine di un felice e fortunato connubio. Per leggere le note a Munari viene chiamato Maiga e la nuova accoppiata dimostra il suo affiatamento con una bella vittoria al Montecarlo, primo appuntamento della stagione. Per la verità l'intera squadra Lancia è in palla e le Stratos dilagano occupando i primi tre gradini del podio: dietro agli italiani si piazzano Waldegaard-Thorszelius e Darniche-Mahè. La sbornia da dominio finisce velocemente sulla neve svedese, dove le Saab 96 di Eklund e Blomqvist risultano imprendibili. Tra i lancisti l'unico a resistere è Lampinen: non molto a suo agio con la Stratos, esce di pista rovinando una sospensione, ma si riprende e arriva ad agguantare un quarto posto che premia i suoi sforzi. In Portogallo vince Munari, nonostante i capricci del cambio, poi il Safari. Nella smania di fare le cose per bene la Stratos viene profondamente modificata rivestendo l'abitacolo con materiale ignifugo, in modo da proteggere l'equipaggio dal caldo africano, mentre la cellula di sopravvivenza viene rinforzata con una gabbia di tubi supplementare per proteggere dagli urti contro animali. Questi interventi si fanno sentire sul peso con ben 100 kg in più, ma sulla carta non dovrebbe essere un handicap gravissimo. In tutto vengono schierate tre Stratos per Munari, Waldegaard e lo specialista Preston, ma questo tridente riuscirà a combinare poco in una trasferta dove non si trova fondo al peggio. Prima di tutto le piogge torrenziale e quindi il fango che s'insinua ovunque, impasta la meccanica e i freni fino al definitivo collasso: Waldegaard si ritrova con la ruota libera spaccata, Munari rompe una serie infinita di ammortizzatori finché il motore non mette fine al suo calvario. Preston è l'unico a vedere il traguardo, anche se in dodicesima posizione e dopo aver bestemmiato contro lo stelo dell'acceleratore piegato. Vince la Mitsubishi con la Colt. All'Acropoli va tutto bene fino alla decima PS, poi inizia la solita cascata di sciagure: Waldegaard, che dilaga come un forsennato, si trova con un condotto dell'olio rotto, mentre a Pinto cede un semiasse. Resiste Pregliasco, sotto la pioggia, finché la frizione non inizia a far girare l'anima fino ad inibire l'uso del cambio. Vincono le Nissan e 'sti "Giapu" cominciano a rompere veramente le b… In realtà il vero pericolo non sono loro, ma la Opel che non domina ma raggranella punti con regolarità fino ad avvicinarsi a sole otto lunghezze dalla Lancia. Si vede uno spiraglio di luce al Rally del Marocco, dove Munari-Maiga agguantano il podio, sebbene sul gradino più basso, ma per tornare a sorridere bisogna aspettare il San Remo con Waldegaard-Thorszelius, Munari-Maiga e Pinto-Bernacchini a monopolizzare i primi tre posti. In Corsica vincono Munari-Maiga, seguiti da Darniche-Mahé. L'equipaggio italiano raggranella gli ultimi dieci punti al Rac e finalmente il Mondiale '76 può dirsi concluso con un netto vantaggio della Lancia (112 punti) sulla Opel (57). Nel '76, la Lancia tenta anche una digressione nel mondiale marche con una Stratos turbo evoluta rispetto alla prima versione: il motore si avvale di una turbina KKK con wastegate ed intercooler, il telaio è allungato da 1218 mm a 1245mm e viene costruita una nuova carrozzeria in vetroresina. La preparazione della macchina viene affidata a Facetti per non gravare troppo sul reparto corse della casa. La Turbo debutta al Mugello con lo stesso Facetti e con Vittorio Brambilla al volante: non conclude, ma a Le Mans un equipaggio tutto femminile, composto dalla Lella Lombardi e dalla francese Dacremont, si piazza al 20° posto alla media di 151 Km/h. Il successo arriva soltanto al Giro d'Italia con Facetti-Sodano. Nel 1977 la nuova arma Fiat per i rally è pronta: la 131 Abarth, derivata dalla popolare berlina 130, viene giudicata ideale per affrontare la Ford, che scende in campo con la Escort, assicurandosi anche i servigi dell'ormai ex lancista Bjorn Waldegaard. Ciò che era stato annunciato l'anno precedente, cioè una divisione dei ruoli tra Fiat e Lancia a seconda del mercato, diventa realtà e le partecipazioni della Stratos al mondiale vengono contingentate a soli 5 rally. Munari fa in tempo a vincere il suo terzo "Monte" proprio davanti alla 131 di Alen, poi si profila un lungo stop fino al Safari, dove la Lancia, come di consueto, getta nella mischia tutto il suo potenziale: 2 Stratos a 24 valvole per Munari e Lampinen, più una 2 valvole per Ulyate. Dal terribile fango africano emerge soltanto Munari, giunto terzo nonostante i problemi ai freni, mentre il surriscaldamento dei motori mette fuori gioco sia Lampinen che Ulyate. Vince Waldegaard con la Escort e per la Stratos si dice ancora "Sarà per la prossima volta", ma ci sarà veramente una prossima volta? Ancora mesi di oblio poi il Sanremo: la Lancia schiera 4 Stratos per Munari, Pinto, Pregliasco e Carello, ma vincono le 131 di Andruet, Verini e "Tony". Munari si trova a piedi per problemi al cambio quando è in testa alla seconda tappa; stessi problemi per Pinto, mentre Carello finisce semplicemente fuori strada. Resiste soltanto Pregliasco, che agguanta un sudatissimo 4° posto dopo aver lottato come un matto per tenersi alle spalle la Escort di Waaldegard. Al Tour de Corse vince il fresco Campione Europeo Darniche, ma non a bordo della Stratos blu con cui ha corso per tutta la stagione, bensì con una bianca 131 Abarth ufficiale. Al secondo posto si piazza la Stratos di Pinto-Benarcchini, mentre Carello-Perissinot sono quarti. Il mondiale si chiude a favore della Fiat con 154 punti, contro i 142 della Ford. Il 1978 si apre con un'ulteriore passo avanti nella gestione delle attività sportive all'interno del gruppo Fiat, che vengono centralizzate in un'unica organizzazione gestita da Cesare Fiorio. Come direttore sportivo della nuova squadra viene scelto Daniele Audetto, il quale ha appena terminato la sua esperienza in Ferrari. Va da se che non possa più esistere una sovrapposizione tra Stratos e 131 Abarth: la prima sarà utilizzata nel confronto per la conquista del titolo europeo, mentre nel mondiale verrà impiegata esclusivamente la seconda. La nuova squadra può contare inoltre su alcuni dei migliori equipaggi in circolazione: Alen-Kivimaki, Munari-Sodano, Verini-Scabini, Bacchelli-Bernacchini, Carello-Perissinot, Rohrl-Geistdorfer. Il budget a disposizione raggiunge l'imponente cifra di 4 miliardi, mentre lo sponsor Alitalia vestirà entrambe le vetture, anche se la Stratos in qualche appuntamento comparirà in livrea Pirelli. Sul piano regolamentare la fine della deroga F.I.S.A, che aveva permesso di montare testate a 24 valvole su vetture omologate con due valvole per cilindro, penalizza di una trentina di cavalli le Stratos, annullando il vantaggio di potenza sulle 131 Abarth. Ciò non impedisce alla Lancia di dilagare nell'europeo, infine assegnato a Carello-Perissinot con il consistente apporto di Darniche-Mahé e Rohrl-Geistdorfer. Ulteriori soddisfazioni vengono dalle vittorie al Sanremo e al Giro d'Italia, ottenute grazie all'impareggiabile classe di Markku Alen. Nel 1979 la Fiat è ormai sazia del suo dominio pressoché assoluto: a Torino si decide di chiudere un'epoca e di prepararsi al futuro attraverso un ambizioso programma inteso ad allevare una nuova generazione di piloti. Ciò significa la completa astensione dai grandi impegni internazionali per riversare le risorse su un campionato monomarca aperto a 127 Sport, Ritmo, 131 Racing ed Abarth, a cui si affianca la grande palestra del Trofeo A 112. Tanti i giovani che passeranno per questa esperienza, sacrificando alla dea delle corse soldi e nottate spese a prepararsi in casa il bolide, nella consapevolezza che soltanto qualcuno di loro potrà emergere. Alla Lancia viene affidata la progettazione della macchina del futuro, che dovrà essere pronta entro il 1981, anno di entrata in vigore di un nuovo regolamento. Sembrerebbe giunto il momento per l'uscita di scena della Stratos, ma quella che è ormai una signora non ha nessuna intenzione di lasciarsi alle spalle la gioventù scapestrata: affidata a scuderie private continua a correre fino al 1982, regalando ancora grandi soddisfazioni. Storica l'annata '80, in cui la Stratos Chardonnet di Darniche-Mahé si piazza al secondo posto al Montecarlo e centra la vittoria al Tour de France. Questi successi hanno aperto la strada al dubbio che la Stratos sia stata prepensionata con eccessiva fretta: indubbiamente questa ipotesi è fondata, ma va riconosciuta alla Fiat la capacità di rimettersi in gioco partendo da un foglio bianco, piuttosto che sfruttare fino in fondo le armi di dominio già a sua disposizione. Inoltre, grazie alle risorse liberate dal termine posto alle partecipazioni internazionali si sono poste le basi per protrarre il successo nel decennio successivo, un successo che ha baciato per lungo tempo ancora il marchio Lancia, prima con la 037 successivamente con la S4 ed infine con la Delta. Un esempio di coraggio e dinamismo che andrebbe tenuto in conto dall'azienda torinese in un momento di profonda crisi come quello attuale.
Un particolare ringraziamento al Centro di Documentazione del Museo dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia" di Torino per aver fornito il materiale di ricerca e al Registro Storico Lancia che ha gentilmente concesso di fotografare le vetture.
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