Lancia Aurelia B24

Attrice di ieri e di oggi

Dopo aver cercato mille modi per non cominciare quest’articolo parlando de “Il sorpasso”, mi arrendo all’evidenza di non poterne fare a meno. Sembra impossibile disgiungere l’immagine dell’Aurelia B24 dai fotogrammi del film di Dino Risi. Come dimenticare il farabutto e gigione Gassman che corre per chilometri di pellicola trascinandosi appresso, di avventura in avventura, un timido e restio Jean Louis Trintignant fino al tragico epilogo di un sorpasso azzardato. Come non risentire il clacson bitonale che starnazza lungo le strade di un’Italia sospesa tra il vecchio ed il nuovo, ed il ruggito di un motore comandato da un piede che vorrebbe dominare il destino ma, alla fine, deve arrendersi davanti al suo inesorabile procedere. Come non ridere e come non commuoversi. Se Risi non avesse utilizzato una B24 per il suo film, ci ricorderemmo ancora di lei? Un dubbio che non ci sentiamo di smentire del tutto. Eppure, questa vettura meriterebbe di essere ricordata al di là del suo essere stata attrice in questa tanto celebrata pellicola, a cominciare dalla sua meccanica, derivata dalla famiglia “Aurelia”, densa di novità e colpi di genio: il primo sei cilindri a V nella storia dell’automobile, il primo tendicatena idraulico, l’uso della scocca portante, un ponte De Dion che è insieme scultura e raffinata tecnologia. E poi la carrozzeria, nata dalle mani di Battista Pininfarina, equilibrata e perfetta, preludio di quella che sarebbe stata la Giulietta Spider. Eppure, nonostante queste brillanti caratteristiche, la B24 ha riscosso meno successo di quello che ci si aspettava. Tante le cause: il prezzo elevato, un processo produttivo lento, una rete di vendita Lancia non propriamente strutturata, una vita produttiva durata soltanto quattro anni, e i marosi finanziari che hanno investito l’azienda nella seconda metà degli anni ’50, culminati con il passaggio della proprietà dalla famiglia fondatrice ai Pesenti. Ripercorrere la storia della B24 significa, dopotutto, rivivere in parte il tentativo di un ardito “sorpasso” della Lancia ai danni della concorrenza, fondato su una produzione innovativa e tecnologicamente raffinata e su ambiziosi programmi sportivi. Un generoso tentativo che ha avuto un esito non tanto diverso dall’epilogo del film di Dino Risi.

Orologio o motore?

La genesi del primo motore V6 nella storia dell’automobile parte da lontano. Un propulsore con un angolo di 60° gradi era stato già ipotizzato nel 1939 dal tedesco Hans Schron, docente alla Technische Hocheschule. All’epoca, la Germania si collocava ai vertici della tecnologia automobilistica mondiale grazie alla pioggia di marchi investiti nelle competizioni dal regime nazista e dall’industria nazionale, rappresentata da grandi aziende come Mercedes, Auto Union e BMW. Lo scoppio della guerra impedì, probabilmente, di conseguire anche quest’ulteriore primato, ma l’idea venne ripresa in Italia appena pochi anni dopo. Nel 1943 la penisola era sottoposta ai martellanti bombardamenti alleati che intendevano mettere in ginocchio i centri produttivi del paese. La risposta del regime fu il decentramento industriale dalle grandi città alla provincia. All’epoca, l’ufficio tecnico della Lancia si trovava sfollato a Padova, con uno staff ridimensionato ma di assoluto valore: alla Direzione Tecnica c’era Giuseppe Vaccarino, alle esperienze Vittorio Jano, e alle dipendenze di quest’ultimo il giovane ingegnere calabrese Francesco De Virgilio, capo studi speciali e brevetti. Nonostante le scarse risorse a disposizione e le esigenze della produzione bellica, si trovava il tempo per fantasticare e lavorare su soluzioni e tecnologie che forse, a guerra finita, sarebbero entrate in produzione. La tradizione motoristica d’anteguerra della Lancia aveva uno dei suoi punti di forza nei motori quattro cilindri a V stretta. Fu proprio seguendo questa filosofia che un tecnico Lancia studiò un motore sei cilindri con un angolo di soli 39°, sottoponendolo all’attenzione di De Virgilio per un eventuale brevetto. L’ingegnere calabrese lo valutò, ma scoprì che i calcoli che stavano alla base di quel progetto erano sostanzialmente errati e il motore non sarebbe risultato equilibrato. L’idea stimolò però la sua curiosità, tanto da indurlo ad affrontare personalmente il problema. Tra tutte le possibili combinazioni ottenibili con sei pistoni divisi su due bancate, si arrivò a selezionarne otto, quattro con un angolo di 60° e quattro con uno di 120°, tutte egualmente equilibrate. Tra queste alternative De Virgilio scelse l’angolo di 60°, quindi disegnò un albero con le manovelle sfasate tra loro di 60° secondo un’elica destra, combinando il vantaggio dell’equilibratura con flussi di aspirazione equidistanti, cioè ogni 240° di rotazione dell’albero motore, e l’accensione alternata in sequenza tra una bancata e l’altra. Alla fine della guerra, lo staff tecnico della Lancia era ormai rientrato a Torino, dove furono stabiliti i piani per la conversione dalla produzione bellica a quella civile. Inizialmente si prevedeva di continuare con l’Aprilia rinfrescandone contenuti e prestazioni, già di primo livello, con l’introduzione del nuovo motore a sei cilindri. Unico problema, il cofano di questa vettura era molto stretto, tale da non consentire l’installazione di un propulsore con un angolo tra le bancate troppo largo. Questo limite obbligò De Virgilio a ripensare il suo progetto per un angolo di 45° gradi. Nel 1947 si costruì un primo prototipo con una cilindrata di 1.569 cc e poi un secondo, che venne montato sull’Aprilia personale di Gianni Lancia, usata per andare e venire da Pisa, dove il giovane e brillante rampollo stava portando a compimento i suoi studi. Nel 1949 la direzione tecnica dell’azienda si rese conto che l’Aprilia era ormai sorpassata, dando il via libera per la progettazione della futura Aurelia. De Virgilio poteva così tornare alla sua idea originale di un propulsore con una V di 60°. La cilindrata venne fissata in 1.750 cc, si dice, per scoraggiare qualsiasi impiego sportivo della vettura. Sul fronte dei materiali si fece largo uso di alluminio, materiale non facile da dominare con le tecnologie dell’epoca: il monoblocco era fuso in conchiglia anziché con le normali sabbie da fonderia, ottenendo un pezzo più preciso e dalle pareti più lisce. Le canne dei cilindri erano, invece, in ghisa, a contatto diretto con il liquido refrigerante. Il complicato albero in acciaio era ricavato dal pieno per l’impossibilità di forgiarlo. Le testate in alluminio erano studiate per ottenere una camera di scoppio emisferica di buon rendimento, grazie alla particolare inclinazione delle valvole, dotate di un cappuccio in acciaio temprato ed inserite in sedi di bronzo con una guida in ghisa. Il meccanismo di distribuzione si avvaleva di un albero a camme posizionato al centro della V formata dalle bancate, che comandava aste in duralluminio e bilancieri in acciaio. Il moto dall’albero motore ai vari accessori e alla distribuzione era garantito da una catena a doppio rango tenuta in tensione, per la prima volta nella storia dell’auto, da un tendicatena idraulico brevettato dalla Lancia: a motore spento la corretta tensione era fornita da una normale molla. Per l’alimentazione fu sufficiente un carburatore doppio corpo inserito fra le due bancate, anche se in alcune elaborazioni spinte si arrivò ad infilarci ben tre carburatori. Le bielle erano stampate e dotate di cuscinetti antifrizione in bronzo, mentre per i pistoni, con 3 anelli di tenuta e 2 raschiaolio, si utilizzò la lega di alluminio. L’impianto di raffreddamento si avvaleva di due termostati, uno fra motore e radiatore per regolare la pressione dell’acqua, e l’altra sul radiatore stesso per comandare la persiana regolatrice della portata d’aria. Se a prima vista tutto ciò sembra presupporre un’elevata complessità dell’insieme, va detto che il propulsore era studiato per una manutenzione rapida e semplice. La razionalità che ne aveva guidato la progettazione si rifletteva anche sulle dimensioni: il tutto pesava 150 kg e misurava in lunghezza dalla ventola solamente 61 cm, risultando più compatto e leggero di molti quattro cilindri contemporanei di analoga cubatura. Le prestazioni in rapporto alla cilindrata erano di tutto rispetto: 56 CV a 4.000 giri/min ed una coppia massima di 10,8 kgm a 2.500-3.000 giri. Nonostante i buoni propositi iniziali nel volersi tenere lontani da motori troppo prestanti, non si resistette alla tentazione di iniziare la corsa ai cavalli: il primo grado di sviluppo, introdotto nel 1951, portò la cilindrata a 1991 cc, studiata per la neonata B20, la coupé della generazione Aurelia. La potenza salì a 65 CV a 4.000 giri/min e la coppia a 12.5 kgm a 4.000 giri/min. Dallo stesso motore si ottennero in progressione 70 CV a 4.500 giri/min e 13 kgm a 4.500 giri/min lavorando sull’alimentazione, e successivamente 90 CV a 4.500 giri/min e 14 kgm a 3.000 giri/min. Il passo successivo portò alla creazione di due motori da 2.266 cc e 2.451 cc, il primo destinato alla berlina in versione B12 ed il secondo alla nuova generazione della B20, ormai diventata una vera gran turismo con l’anima corsaiola. L’unità piccola erogava 87 CV a 4.500 giri/min ed una coppia di 16 kgm a 2.500-3.000 giri/min. Il propulsore con cilindrata maggiore, poi destinato alla B24, aveva un alesaggio di 78 mm ed una corsa di 85,5 mm ed erogava 118 CV a 5.300 giri/min, ma potenze maggiori furono ottenute su speciali motori da corsa, anche grazie all’uso di compressori volumetrici, ma questa è un’altra storia.

Dalla berlina alla spider

Immessa sul mercato nel 1950, l'Aurelia B10 era una berlina che univa tecnologia d'avanguardia ad uno stile sobrio e funzionale. Le ridotte dimensioni del motore avevano lasciato ampio spazio all'abitabilità interna, resa più confortevole dalla concentrazione di frizione, cambio e differenziale sull'asse posteriore. Tale soluzione contribuiva anche ad una migliore distribuzione dei pesi con benefici influssi sulla guidabilità. L'accesso all'abitacolo era reso confortevole dalle porte ad armadio che già avevano caratterizzato la precedente Aprilia. La tenuta di strada era garantita da sospensioni indipendenti su entrambi gli assi: all'anteriore veniva riproposto il collaudato schema Lancia a scorrimento verticale e ammortizzatori telescopici regolabili, con molle elicoidali incluse all'interno. Più innovativa la sospensione posteriore: il sistema era studiato in modo da inscrivere i movimenti dei bracci divergenti in un cono avente vertice sull'asse del gruppo cambio - differenziale. All'epoca giudicato troppo sofisticato, venne compreso e riproposto da BMW e Mercedes soltanto molti anni dopo. La linea della carrozzeria fu ufficialmente frutto di studi interni alla Lancia, che però si avvalse della consulenza di Battista Pininfarina. Il risultato fu un frontale caratterizzato dalla mascherina a forma di scudo della Lancia e dai doppi fari, mentre le fiancate sfuggivano sia alla tentazione di riproporre temi troppo legati allo stile d'anteguerra, sia a quella di "americaneggiare" con forme troppo piene e strani orpelli: in sintesi, quel giusto equilibrio che porta alla contemporaneità con il proprio tempo. Con il propulsore da 1.754 cc la B10 poteva correre fino ad una velocità massima di 135 Km/h: nonostante l'uso di alluminio in molte componenti della carrozzeria, il peso era pur sempre di 1080 Kg e i lancisti si sentivano già il fiato sul collo delle più potenti Alfa Romeo 1.900, che nelle versioni Super raggiungevano i 160 Km/h. Nel 1951 debuttava la B21 con il motore da due litri, mentre l'anno successivo fu la volta della B22 con lo stesso propulsore portato a 90 CV. Dello stesso anno la B15, una limousine mossa dal 2 litri da 65 CV. Infine nel 1954 fu introdotta la B12, unanimemente giudicata la più equilibrata di tutte le versioni per le prestazioni fornite dal 6 cilindri portato a 2,3 litri. Risale invece al 1951 il debutto della B20: con il due litri da 65 CV era un'elegante sportiva, ma con l'unità da 2.451 cc, introdotta nel 1953, e il ponte De Dion progettato da Vittorio Jano per le competizioni, la coupé si trasformò in un lupo travestito da agnello, capace di portare alla Lancia una messe di vittorie in varie categorie. Nel 1954, al Trofeo di Regolarità Super Cortemaggiore (la benzina italiana, recitava la pubblicità dell'Eni) il pilota Gigi Villoresi si presentò a bordo di una Lancia Aurelia Spider colore beige ed interni verdi: è questo l'atto di nascita ufficiale della B24. La stessa vettura (telaio 1001) fu poi utilizzata da Gianni Lancia per i suoi spostamenti in Torino, prima di sparire misteriosamente.

Acquarama da strada

La nuova vettura fu concepita sul telaio della B20 accorciato di 20 cm. Il passo misurava così 2.450 mm, la lunghezza 4.200 mm, mentre la larghezza toccava i 1.555 mm. Dalla coupé derivava anche la meccanica: il sei cilindri in versione da 2,4 litri, con l'alimentazione fornita da un carburatore doppio corpo Weber 40 DCZ5 e un rapporto di compressione pari a 8,1:1, forniva 118 CV a 5.000 giri/min ed una coppia di 18,5 kgm a 3.500 giri/min. Il ponte De Dion posteriore, che vedeva riuniti frizione, cambio, differenziale e freni a tamburo in board, era collegato al motore attraverso un albero di trasmissione in due tronchi con supporto intermedio e giunti elastici alle estremità. La trasmissione era a quattro rapporti + RM di cui tre sincronizzati, mentre il rapporto al ponte era pari a 4,26:1. Le sospensioni anteriori seguivano il solito schema Lancia comune a tutte le altre Aurelia, mentre la frenata era assicurata da tamburi di 30 cm di diametro sull' avantreno e 28 cm sul retrotreno. Per questa base Pininfarina concepì una carrozzeria ispirata allo stile d'oltreoceano, a cominciare da quel parabrezza panoramico che già equipaggiava parecchi modelli americani e anche l'Acquarama, un lussuoso motoscafo dei Cantieri Riva molto in voga all'epoca. La sezione frontale era meno imponente di quella delle altre Aurelia, ma non se ne discostava nella sua impostazione generale: protagonista era ancora la mascherina prominente a forma di scudo, accompagnata da fari tondi in cornici cromate e dagli indicatori di direzione. Sul telaio 1001 la protezione dagli urti era affidata a due rostri, ma per la versione di serie si fece ricorso a paraurti a lama sdoppiati che convergevano verso la mascherina. La grintosa presa d'aria sul cofano non era altro che un artificio per contenere il filtro dell'aria, più sottile rispetto alle altre versioni della famiglia: infatti, la snella sezione frontale andava un po' stretta alle dimensioni del motore, al punto che i tecnici furono obbligati ad abbassare la ventola di qualche millimetro. Il parabrezza panoramico contribuiva a mangiarsi una porzione del cofano, rendendolo visivamente più corto e allo stesso tempo dando una sensazione di maggiore spaziosità all'abitacolo. La linea di cintura trovava origine dai fari anteriori per salire in modo morbido al di sopra dei passaruota e ridiscendere verso le portiere. Poco dietro, dalla sagomatura rigonfia che dava corpo ai parafanghi posteriori, nasceva la linea di cintura finale, che culminava in piccole pinne tagliate dalle luci. Uno spesso profilo cromato sotto le portiere alleggeriva la vista laterale. La coda era, invece, dominata dal grande portellone posteriore, che dava l'impressione di una notevole capienza del bagagliaio. Sulla versione definitiva fu poi aggiunto un fascione posteriore che conferiva maggiore corpo alla linea, mentre i paraurti ripetevano lo schema già proposto all'anteriore. Il concetto di Spider all'epoca corrispondeva ad una versione molto spartana della vettura scoperta: dunque, niente maniglie e per aprire gli sportelli si utilizzava la sottile cordicella interna, mentre un meccanismo permetteva lo sbloccaggio del bagagliaio dall'interno. La battuta delle portiere molto alta prefigurava un accesso all'abitacolo non proprio agevole, e la presenza del parabrezza panoramico impediva l'utilizzo di finestrini laterali discendenti, sostituiti da pannelli di plexiglass asportabili e dotati di un deflettore. La capote scompariva completamente dietro ai sedili, accentuando l'aspetto di scoperta senza compromessi. Semplice da dispiegare, aveva un aspetto funzionale più che elegante: in alternativa si poteva sempre ricorrere all' hardtop, fissato al parabrezza con tre galletti e con due alla carrozzeria. L'abitacolo, semplice e allo stesso tempo elegante, poteva contare sulla selleria foderata in finta pelle Rosinflex, che ricopriva anche la parte superiore della plancia. Il cruscotto era verniciato nel colore della carrozzeria, ma a richiesta poteva essere uniformato alla tinta degli interni. Davanti al passeggero un vano portaoggetti privo di sportellino era attraversato orizzontalmente da una maniglia, dove la bionda di turno poteva eventualmente attaccarsi negli scuotimenti provocati da una guida brillante. Il guidatore poteva, invece, artigliare un esile volante a tre razze in alluminio con corona in legno di ampio diametro. Davanti a lui, la strumentazione raccolta in tre gruppi circolari: a sinistra il contagiri, al centro il tachimetro e a sinistra gli indicatori di benzina acqua ed olio. La leva del cambio era inizialmente al volante, ma dopo i primi esemplari fu spostata sul pavimento. Il bagagliaio, contrariamente alla maggior parte delle spider esistenti all'epoca, era molto apprezzato per la sua capienza, grazie alla ruota di scorta annegata nel pianale e al serbatoio carburante da circa 60 litri spostato in avanti, dietro ai sedili. La nuova creatura fu presentata ufficialmente al Salone di Bruxelles, nel gennaio del 1955, senza riscuotere eccessivo entusiasmo presso la stampa specializzata. Questo il commento di Auto Italiana a seguito dell'evento: "In questa macchina Pinin Farina ha profuso chiaramente tutta la sua arte secondo il suo schietto e squisito canone italiano. Solo in qualche punto ha voluto e dovuto adottare qualche particolarità che non è del tutto italiana. Alludiamo al parabrise sensibilmente panoramico, al trattamento all'interno dell'abitacolo ed alle false ruote a raggi, che comunque non sfigurano affatto nell'insieme della vettura." I cerchi furono poi sostituiti con un nuovo modello in acciaio stampato mentre, causa le difficoltà di calettamento sui grossi mozzi, le ruote a raggi Borrani furono rese disponibili solo più tardi. La proposta di Pinin Farina oscurò comunque la Cabriolet presentata da Vignale nella stessa occasione. La Spider, lanciata sul mercato allo stratosferico prezzo di 2.822.000 lire, era disponibile in due versioni: la B24 con guida a destra e la B24S con guida a sinistra. La Lancia era infatti l'unica delle case italiane a credere ancora nell'impostazione della guida a destra: da una parte c'era il pregio di seguire meglio il ciglio della strada, ma per contro era più difficile superare. Con la crescente motorizzazione e l'aumentare del traffico sulle strade, quest'ultima esigenza avrebbe preso il sopravvento. Alla fine del 1955 erano state prodotte 59 B24 e 180 B24S: di queste ultime molte vennero esportate negli Stati Uniti, mercato di riferimento per vetture scoperte. Gli esemplari destinati a varcare l'oceano erano equipaggiati con un propulsore dotato di albero a camme dal profilo meno spinto, che toglieva una decina di cavalli alla potenza, e da una barra tubolare di collegamento tra i due paraurti anteriori, a protezione della mascherina. Già durante il primo anno di produzione la direzione della Lancia decise di ricollocare diversamente sul mercato la B24, un'operazione che significò la revisione generale del progetto e un arricchimento dei contenuti: la Spider era pronta al pensionamento anticipato.

Dalla spider alla convertibile

Tra una spider e una convertibile in quegli anni c'era una bella differenza: più o meno quella che intercorreva tra una popolana e una nobildonna. Le vere spider erano le micidiali scatolette inglesi, che a motori di piccola cilindrata accoppiavano un telaio e una carrozzeria leggeri, sacrificando ogni comfort all'esigenza di risparmiare peso. Era già tanto se avevano la capote, e comunque molto spesso non è che questa servisse ad un granché. La B24 era forse troppo costosa e raffinata per essere un'autentica spider: tanto valeva farne una convertibile. Le modifiche riguardarono un po' tutti i reparti, a cominciare dalla meccanica, che ricalcava quella dell'Aurelia B20 sesta serie: i cavalli scesero a quota 110 a 5.000 giri/min, mentre la frizione passava dal comando meccanico a quello idraulico. La quarta marcia diventò in presa diretta e la coppia conica ipoide fu modificata. Nuovi i freni a tamburo con utilizzo di lega d'alluminio e fasce in ghisa. Anche Pininfarina dovette rimettersi al tavolo da disegno e affinare la linea della sua creatura: prima di tutto, via il parabrezza panoramico che aveva così tanto caratterizzato la Spider. L'inserimento di un parabrezza normale con deflettori fissi permise l'adozione dei finestrini laterali discendenti. Nuovo il taglio delle portiere, con una battuta più bassa, per permettere un accesso confortevole all'abitacolo. Finalmente comparvero le maniglie alle portiere, e sul lato guida anche la serratura. I paraurti sdoppiati furono sostituiti da un unico elemento a lama: quello anteriore era sagomato nel centro per proteggere e accompagnare la mascherina prominente, ora impreziosita da un maggior numero di elementi cromati. Un altro profilo cromato ingentiliva la bocca della presa d'aria sul cofano. Al posteriore inizialmente furono cambiati soltanto i paraurti con il nuovo tipo in un pezzo unico, ma dal '57 si aggiunse anche la maniglia e la serratura per aprire il portabagagli, sormontata da due bandiere incrociate che segnalavano il felice connubio tra la Lancia e la Pininfarina. Le creste dei parafanghi posteriori furono ridisegnate più alte e tese, con i terminali a pinna più fuggenti. Il cruscotto, razionalizzato, raggruppava i principali indicatori in due soli strumenti, mentre il vano portaoggetti davanti al passeggero veniva protetto da uno sportellino con serratura. Questa cura di bellezza ebbe ricadute su diversi aspetti: la lunghezza passava da 4.200 a 4.230 mm, il peso da 1.050 kg a 1.215, mentre la velocità scendeva dai 180 della Spider ai 175 km/h. Naturalmente aumentava anche l'esborso necessario per portarsi a casa il gioiello: 2.922.000 lire, cui bisognava aggiungerne ancora 180.000 se si desiderava l'hard top. Tanto costava acquistare una vettura come la B24 Convertibile: elegante, confortevole, veloce, con un ottimo livello di finitura garantita da sistemi produttivi più vicini all'artigianato che all'industria di massa. Furono relativamente in pochi a commettere la follia: la Convertibile fu costruita in 521 esemplari, di cui 96 presero la via degli Stati Uniti. Ironia della sorte, l'anno di maggiore successo, il 1958 con 195 esemplari, fu anche l'ultimo di produzione.

Come è profondo il mare

Com'è profondo il mare cantava Lucio Dalla. E laggiù, in fondo al mare, la leggenda vuole che riposino alcune B24: nella baia antistante New York era la notte del 25 luglio 1956 quando, causa una nebbia fittissima, l'orgoglio della flotta navale italiana, l'Andrea Doria, si scontrava con un rompighiaccio svedese, lo Stockholm. Mentre la prima affondava con lo scafo orribilmente squarciato, la seconda è ancora in servizio, trasformata in nave da crociera. Tra i tanti tesori che si favoleggiava ci fossero sull'Andrea Doria al momento dell'affondamento, si parlava anche di alcune Aurelia B24 destinate agli Stati Uniti. E in molti hanno pensato che un'altra Aurelia B24 fosse andata irrimediabilmente perduta: quella finita nel burrone nelle scene finali del già citato film "Il sorpasso". E invece no: per l'occasione venne scaraventata giù una Siata 1.400 Cabriolet. E tutti noi abbiamo sempre creduto che la macchina del film fosse bianca, ma nemmeno questa volta ci abbiamo azzeccato. Le B24 usate per le riprese erano due: una celeste per gli esterni e una verde acqua per gli interni, ed entrambe godono ancora oggi di ottima salute nelle mani di collezionisti privati. Comunque, ancor prima di darsi al cinema, la B24 aveva tentato la carriera sportiva e fece in tempo a correre l'ultima Mille Miglia, che è anche il suo miglior risultato in carriera: diciannovesima assoluta e settima di classe, portata al traguardo dal pilota gentleman Guido Maria Terzi. Di certo non aveva i cavalli giusti per mettersi dietro le Ferrari, anche se per gli affamati di potenza la Nardi era riuscita nel piccolo miracolo di infilare tre carburatori nell'esiguo spazio tra il motore e la finta presa dinamica sul cofano. Ed era tutta un'altra musica. Nel complesso una vita avventurosa, che tante altre macchine non hanno avuto. Resta forse il cruccio di non essere stata capita fino in fondo o di esserlo stata quando ormai era troppo tardi. Il tempo le ha poi dato ragione: corteggiata dai collezionisti a suon di quattrini, la B24 "decapottabile e supercompressa", per dirla con le parole di Bruno Cortona-Vittorio Gassman, ti fa voltare la testa quando passa, e non per dire "Dev'essere stata bella un tempo!", ma per constatare che è bella ancora oggi.

Stefano Costantino

Un cortese ringraziamento al Museo dell'Automobile Carlo Biscaretti di Ruffia per aver messo a disposizione con la consueta cortesia il suo prezioso Archivio, e al Club Lancia per aver consentito di fotografare gli esemplari di questo servizio.

  • Deganello E., Gentildonna nuovo stampo, in Ruoteclassiche, febbraio 1995.
  • Deganello E., Io ti battezzo Gran Turismo, in Ruoteclassiche, aprile 1992.
  • Alfieri I., Un sogno per pochi, in Auto d'Epoca, 6 giugno 1966.
  • De Monti D., Gran fascino del made in Italy, in La Manovella, maggio 2004.
  • Barnabò F., Lancia Aurelia GT, Edizioni Libreria dell'Automobile, 1983 Milano.
  • Sulla presentazione della B24 al Salone di Bruxelles vedi Auto Italiana, Gennaio 1955.

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