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Ferruccio Lamborghini pare uno di quei personaggi usciti dalla penna di Giovannino Guareschi, lo scrittore che più di tutti ha compreso e descritto l'anima degli emiliani: testardi fino all'irragionevolezza, poco inclini alla teoria e molto alla pratica, astuti commercianti, impulsivi, amanti delle sfide e sognatori non privi di una certa poesia. Quest'eclettico imprenditore, nato nel 1916 a Renazzo, sobborgo di Cento in provincia di Ferrara, potrebbe essere assimilato al Peppone della situazione, in contrapposizione alla "Santa Maranelliana Chiesa dell'Automobile", impersonata da Enzo Ferrari nell'insolito ruolo di Don Camillo: la delicata materia di disputa teologica era rappresentata dalle Gran Turismo a 12 cilindri, che il primo comperava ed il secondo costruiva. La leggenda vuole (ma in realtà sembra ben più di una leggenda) che Ferruccio Lamborghini fosse un grande amante di vetture sportive, e tra le tante che possedeva vi era una Ferrari 250 GT, alla quale si permise di apportare una piccola modifica alla frizione per migliorarne la fruibilità. Già di per se era un bello sfregio cercare di migliorare macchine, che venivano vendute come il vertice massimo della tecnologia e della perfezione, ma Ferruccio non si accontentò e si mise sulla strada per Maranello con l'intenzione di suggerire che tale modifica fosse estesa a tutta la produzione. Immaginiamo l'ondata di sdegno in un Ferrari notoriamente poco incline ad accettare consigli: tra tuoni e fulmini, rinfacciò a Lamborghini di essere soltanto un costruttore di trattori e che di trattori doveva continuare ad occuparsi, senza impicciarsi di cose in cui non aveva la minima esperienza. L'uomo della strada a quel punto se ne sarebbe andato offeso, probabilmente avrebbe venduto la sua Ferrari, sicuramente non ne avrebbe acquistata una seconda e per sempre avrebbe parlato male dello sgarbato Commendatore. Ma Lamborghini doveva essere uno di quelli che se gli dai una sberla te ne restituiscono dieci, più una omaggio. Otto mesi dopo quello scontro, siamo nel 1963, in mezzo ai campi di Sant'Agata Bolognese nacque la Lamborghini Automobili, che ben presto lanciò la 350 GTV, una potente 12 cilindri molto raffinata sia dal punto di vista stilistico sia da quello meccanico. Non era altro che un dimostratore tecnologico per misurare le capacità della neonata azienda e, infatti, rimase un esemplare unico. La vera e propria produzione prese avvio con la successiva 350 GT. Inizia così la storia di uno dei marchi più prestigiosi d'Italia che, nonostante le alterne fortune ed i numerosi passaggi societari, è riuscito a mantenere inalterato il suo valore di immagine, stile ed esclusività.
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A metà degli anni '60 la Lamborghini è una giovane azienda che costruisce macchine ineccepibili dal punto di vista meccanico, tuttavia manca ancora la definitiva consacrazione e soprattutto un'identità stilistica. Sono molti i carrozzieri che si cimentano nel vestire i telai usciti dallo stabilimento di Sant'Agata Bolognese, ma i risultati sono spesso troppo legati allo stile tradizionale di scuola modenese. Il paragone con le berlinette Ferrari è sempre in agguato e rappresenta una minaccia sull'immagine di un marchio alla ricerca di un proprio carattere. Ferruccio Lamborghini, da parte sua, ha avuto l'abilità di portare alla sua corte un gruppo di cervelli eccezionali, in cui si distinguono per capacità tecniche gli ingegneri Gian Paolo Dallara (ex Ferrari e Maserati) e Paolo Stanzani. Dal loro genio esce un complesso telaio motore dalle caratteristiche fortemente innovative, che viene presentato al Salone di Torino nel 1965, sotto l'anonima sigla "P 400". L'interesse è subito notevole, anche perché non si comprende come si riuscirà a tirare fuori una vettura da strada con una base di partenza che pare pensata per le competizioni. In effetti, sembra che Dallara e Stanzani pensassero proprio alle corse elaborando le linee guida del loro progetto: telaio in acciaio scatolato ed alleggerito, sospensioni indipendenti a bracci triangolari sulle quattro ruote, cui si aggiunge un generoso V12 di 60° e 4000 Cm3 di cilindrata, montato trasversalmente ed in posizione centrale, un'architettura considerata anomala per una semplice vettura da strada. L'alimentazione è garantita da quattro carburatori triplo corpo verticali della Weber. Il cambio è in blocco con il motore ed i cinque rapporti sono innestati da un ricercato attuatore idraulico, che consente di addolcire notevolmente il passaggio da una marcia all'altra, mentre il comando conserva il tradizionale schema a leva centrale. Infine, il radiatore e collocato anteriormente in posizione orizzontale, nel tentativo di ridurre al minimo la resistenza all'avanzamento. Sulla carta sono programmati due distinti modelli: una versione normale con 350 cavalli a 7000 giri al minuto ed una seconda, denominata "Sprint", con una potenza di 430 cavalli ad 8000 giri al minuto, studiata specificatamente per le competizioni e mai realizzata. Ciò che manca è una carrozzeria all'altezza di un simile sistema meccanico: alla fine del 1965 Ferruccio Lamborghini stringe un accordo con Nuccio Bertone, che ha appena assunto Marcello Gandini in sostituzione di Giorgetto Giugiaro, uscito dall'azienda per mettersi in proprio. A Torino si mettono a lavorare duro, anche perché non è impresa facile vestire un simile telaio rispettandone gli estremismi e riflettendo nelle lamiere il carisma che esso sprigiona. I compromessi sono inevitabili: l'attuatore idraulico del cambio viene accantonato perché troppo sofisticato ed oneroso, mentre il radiatore torna in posizione verticale per migliorare il raffreddamento. Esistono poi grossi problemi d'isolamento acustico e termico dell'abitacolo rispetto al vano motore, risolti con l'inserimento di un cristallo spesso 8 mm, che lascia ai passeggeri una piacevole vista sul 12 cilindri. Nel marzo del 1966, dopo soli tre mesi di lavoro, la nuova creatura viene presentata al Salone di Ginevra, riscuotendo un successo entusiasmante, sia da parte del pubblico di appassionati, sia da parte della stampa. Improvvisamente, tutte le gran turismo che fino al giorno prima erano considerate la massima espressione della modernità, diventano vecchie di fronte a quell'audace insieme di linee battezzato "Miura", il nome di una feroce razza di tori da corrida. La vettura è caratterizzata da una linea di cintura molto bassa e morbida, che sottolinea sinuosamente i parafanghi, mentre il cofano picchiante termina in una larga e stretta bocca di squalo, che nasconde la griglia di raffreddamento del radiatore e le luci di posizione. Altre due griglie nere e rettangolari proteggono gli sfoghi d'aria calda (una permette l'accesso al bocchettone della benzina) con un tema longitudinale che richiama la velocità ed interrompe la purezza della lamiera. Lo stesso motivo viene ripetuto intorno ai fari, perfettamente rotondi e dotati di un sistema di orientamento in grado di portarli in posizione verticale nella fase di utilizzo. La coda raccoglie la fusione della linea di cintura con quella del padiglione, mascherando un profilo a Kamm integrato nel portello del bagagliaio, alle spalle del vano motore. Quest'ultimo è protetto da un pannello di plexiglas che lascia il motore in vista, mentre sotto i gruppi ottici si trova un largo sfogo per l'aria calda, ingentilito da una griglia a nido d'ape che ospita ed occulta i terminali di scarico. Il padiglione è caratterizzato da un parabrezza molto inclinato e dai montanti posteriori, che accolgono prese d'aria aggiuntive per il vano motore, protette da una trama di lamelle orizzontali e da un andamento che ricalca il taglio particolare dei finestrini. Fondamentale passare in rassegna i colori disponibili per la carrozzeria: verde Miura, arancio Miura, bianco Miura, bleu Miura, verde smeraldo e rosso corsa. Si tratta in gran parte di calde tinte pastello che accentuano la linea della vettura, rendendola, se possibile, ancora più sfacciata ed eccitante. Molto innovativo anche l'abitacolo, con un'impostazione di tipo aeronautico, caratterizzato da sedili poco imbottiti e molto avvolgenti nella zona lombare. Il quadro dietro al volante raccoglie tachimetro e girometro, separati dal piantone dello sterzo e stilisticamente indipendenti. Gli strumenti secondari sono raccolti sulla consolle centrale, mentre la pulsantiera principale è ricavata nel cielo dell'abitacolo. Il tunnel accoglie il cambio con selettore in metallo, i pulsanti degli alzafari elettrici, oltre al freno a mano. Dall'insieme di questi elementi si comprende come la Miura rappresenti il punto di rottura con il classico stile delle Gran Turismo costruite all'epoca. È talmente sensazionale e moderna che Lamborghini e Bertone pensano di costruirne soltanto una decina di esemplari e, in effetti, non sembra esista nemmeno un vero e proprio piano industriale dietro a quel progetto, ma il pubblico, ed in particolare i potenziali clienti, forzano la mano ai due personaggi: già a Ginevra vengono accumulati diversi ordini con tanto di anticipo. Per l'inizio della produzione occorre attendere il giugno del 1967, dopo essere passati attraverso il Salone di Parigi, dove viene presentata la versione definitiva, caratterizzata da alcune modifiche di dettaglio: il lunotto posteriore di plexiglas viene sostituito con una veneziana nera, mentre i terminali di scarico sono spostati al di sotto della carrozzeria, ottenendo un bagagliaio più ampio. Il prezzo di 7.700.000 lire è follia pura, ma si può andare ben oltre con l'aggiunta degli optional previsti: interno in pelle (155.000 lire), condizionatore (300.000), specchietti retrovisori esterni (16.000), verniciatura extra (80.000), verniciatura metallizzata extra (125.000). Senza contare che nulla è impossibile in una simile fascia di prezzo e qualsiasi desiderio può essere esaudito. Tuttavia, nemmeno la concorrenza scherza e dando una rapida occhiata ai listini dell'epoca si scopre che la Ferrari 360 GTC costa 6.500.000 lire, la 365 GTB 7.900.000 lire, la Bizzarrini 5300 GT Strada 5.950.000 lire, l'Iso Grifo GL 7 litri 7.900.000 lire, la Maserati Mexico 6.900.000, mentre per la De Tomaso Mangusta Coupé occorre sborsare 6.495.000.
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Al Salone di Torino del 1968 viene presentata la Miura S, che si caratterizza per un incremento del rapporto di compressione da 9,5:1 a 10,4:1. Ne beneficia la potenza, che sale a 370 CV a 7.700 giri minuto, mentre la coppia passa dai 37,6 Kgm a 5100 giri/min. ai 39,5 per 5.500 giri/min. L'impianto elettrico è ora supportato da un nuovo alternatore da 450 W. Evoluzioni di dettaglio anche nell'abitacolo e nella carrozzeria: un nuovo volante guida le emozioni degli utenti, mentre viene rinnovata la consolle del soffitto e la maniglia lato passeggero. L'estetica viene ritoccata con l'aggiunta di cornici cromate al parabrezza, ai finestrini laterali ed ai gruppi ottici anteriori. Al Salone di Ginevra del 1971 l'ultima evoluzione: la Miura SV, che raccoglie le esperienze della Jota, di cui si parla a parte. Il motore raggiunge i 385 cavalli di potenza a 7.850 giri/min., mentre la coppia sale a 40,7 Kgm a 5.750 giri/min., con un rapporto di compressione pari a 10,7:1. Viene separato il carter del motore da quello del cambio, migliorando la lubrificazione, mentre le sospensioni posteriori sono modificate con l'adozione di un quadrilatero inferiore. Le crescenti prestazioni impongono l'utilizzo di freni a disco autoventilati, già montati sugli ultimi esemplari di S. Esteticamente la vettura subisce pesanti modifiche: l'anteriore viene ridisegnato, inserendo nella presa d'aria inferiore nuovi fendinebbia e indicatori di posizione integrati. Spariscono, inoltre, le griglie dai gruppi ottici, che avevano caratterizzato i modelli precedenti. I parafanghi sono più larghi per accogliere i Pirelli FR205/70VR15, che migliorano le doti dinamiche della vettura. Il posteriore è caratterizzato da nuovi gruppi ottici con luci retromarcia integrate, mentre il fascione nero perde il motivo a nido d'ape e accoglie il portatarga.
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Procedere cum grano salis: sembra questa la raccomandazione di "Auto Italiana" e "Quattroruote" nei loro rispettivi servizi sulla Lamborghini Miura. La prima prova la vettura nel novembre del 1968, facendo registrare una velocità di punta di 269 Km/h con il rapporto al ponte 11/47 (utilizzando 11/45 la casa dichiarava una velocità di 290 Km/h). Ciò che l'autorevole rivista mette in luce è il doppio carattere della vettura in funzione della velocità: ad un'andatura moderata la vettura offre ampi margini di sicurezza, garantendo un comportamento sostanzialmente neutro in curva ed una buona guidabilità. Portata in pista e messa alla frusta, la Miura rivela immediatamente la sua natura di auto da corsa, assimilabile ai prototipi da competizione che dominano le scene in quegli anni. Occorre quindi molta attenzione perché "se un appunto possiamo fare, è che la vettura non preavverte quando sfugge di mano." Si tessono grandi elogi allo sterzo, "moderatamente demoltiplicato, ma mai eccessivamente faticoso", mentre il motore "ha risposto subito regolarmente ed esso incomincia a girare vigorosamente intorno ai 3.000 giri". L'abitacolo viene giudicato confortevole in relazione all'impostazione ed alla classe della vettura, adatto a persone di media statura e soprattutto ben insonorizzato e termoisolato dal motore. Qualche critica viene mossa al cambio, "ben situato, impeccabilmente sincronizzato, ma ha il comando duro che richiede movimenti di grande ampiezza e non è possibile usarlo così rapidamente come si vorrebbe in una vettura di questa categoria". Nemmeno la frizione sembra brillare per funzionalità e si rileva che a caldo non stacca perfettamente. Del tutto simili le osservazioni di "Quattroruote", che prova la Miura nello stesso periodo di "Auto Italiana" e con il medesimo rapporto al ponte (11/47): la velocità registrata questa volta è di 276 Km/h, ma il dato che impressiona maggiormente gli autori della prova è l'accelerazione. Scrivono, infatti, che "il chilometro con partenza da fermo è stato percorso in 24,150 secondi: è questo il miglior tempo da noi registrato al volante di vetture di normale produzione. Si tratta veramente di un'accelerazione fulminante." Sorprendente il dato sui consumi: " Tenendo la media di 120-130 Km/h su percorso pianeggiante senza curve si possono fare 7-8 chilometri con un litro: quando invece si vogliono accentuare le doti di brillantezza della vettura, i consumi scendono a valori prossimi ai 3-4 Km/l." A titolo di paragone, in quel periodo gli americani associano un simile consumo ad una vettura come la "Chevy II", considerata di medio livello. Infine, riportiamo la significativa conclusione di "Quattroruote", secondo cui "a parte i miglioramenti che si possono ancora fare, la Miura è veramente un'automobile entusiasmante e tutta da guidare: riteniamo l'unica in grado di dare al suo fortunato possessore la gioia della guida pura."
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Nel 1973 viene costruita l'ultima Miura per un totale di 755 esemplari. Il suo mito è alimentato dai nomi celebri dell'epoca che ne hanno voluta una: lo Scià di Persia, Ranieri di Monaco, Frank Sinatra, Dean Martin e Little Tony. Dei meriti attribuiti alla Miura si è già diffusamente parlato, ma a questi ne va aggiunto uno che può essere definito indiretto: ha spinto la Ferrari a rinnovare lo stile ed i contenuti delle proprie Gran Turismo. Non a caso, la risposta di Maranello è stata la 365 GTB/4 Daytona, non meno affascinante ed innovativa, anche se ancora legata all'impostazione classica con motore anteriore e trazione posteriore, mentre la Miura ha ormai consacrato la posizione centrale del propulsore su vetture ad elevate prestazioni. All'uscita di produzione della Miura si accompagna il progressivo disinteresse di Ferruccio Lamborghini per il mondo dell'automobile, che culmina con la cessione in due successive tranche del pacchetto di controllo sull'azienda. Sono gli anni della crisi energetica ed il mercato non favorisce simili vetture, senza contare che il mondo dell'automobile sta intraprendendo una strada di continua sofisticazione, e ciò implica la disponibilità di elevate risorse per rimanere al passo con i migliori. La Ferrari dal 1969 ha alle spalle un grande gruppo industriale come la Fiat, mentre dietro la Lamborghini c'è soltanto un cocciuto imprenditore, capace di partire dal nulla e rendere noto in tutto il mondo il marchio del toro in campo blu. Non è cosa da poco, se si considera quanti altri hanno tentato questa strada impervia, prima e dopo di lui, uscendone con le ossa rotte.
Un particolare ringraziamento ad Automobili Lamborghini Holding e al Museo dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia" di Torino.
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