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Guardandola si può soltanto rimpiangere che essa non abbia avuto un seguito produttivo. La leggenda della Miura è già grande perché ha rivoluzionato il modo di concepire e costruire le Gran Turismo ad alte prestazioni, ma se la sua gamma si fosse ampliata con questo modello, avrebbe potuto essere ancora più grande, segnando un capitolo importante di stile e bellezza anche nel campo delle vetture scoperte. Ancora una volta Nuccio Bertone ha visto giusto e studiato accuratamente il progetto: sul telaio n°3498, rinforzato negli scatolati centrali per garantire la necessaria rigidità torsionale e accoppiato al motore n°1642, non si tratta solamente di eliminare il tetto. Via i finestrini laterali e le maniglie esterne delle portiere. Tolta anche la veneziana posteriore, per lasciare lo scultoreo 12 cilindri a V di 60° in piena vista, con i tromboncini di aspirazione appena schermati da elementi scatolati. Le linee della carrozzeria sono leggermente modificate per riequilibrare l’estetica: il parabrezza è maggiormente inclinato e risulta abbassato di 30 mm, mentre il roll bar posteriore viene portato ancora più in basso. La coda viene riproporzionata alzando la cresta dei parafanghi, e le prese d’aria sui montanti subiscono un allargamento. I fanali posteriori sono ridisegnati e assomigliano molto a quelli dell’Alfa Romeo Montreal, mentre i terminali di scarico escono in mezzo allo sfogo d’aria sotto al paraurti, protetto da una griglia nera a nido d’ape. I comandi che sulla P400 sono stati sistemati sul cielo dell’abitacolo, nella Roadster devono essere spostati sull’elegante plancia nera, dove figura anche un nuovo volante a quattro razze con un’aria molto grintosa. Nessuna forma di copertura è prevista in caso di pioggia. L’ultimo tocco del Maestro torinese è rappresentato ancora una volta dalle tinte utilizzate: la carrozzeria è verniciata in un azzurro cielo con scaglie di metallo, che dona alla vettura eleganti riflessi. Negli interni domina il bianco, contrastato da inserti rossi e sanguigni. La vettura è presentata allo stand della Bertone, al Salone dell’automobile di Bruxelles nel 1968, ed è denominata Bertone Roadster. E’ una macchina studiata per attirare l’attenzione, ma se il pubblico alla kermesse belga si dimostra entusiasta, la Lamborghini Automobili sembra esserlo meno. La macchina viene comunque portata nella sede della Lamborghini, a Sant’Agata Bolognese, dove è testata a fondo prima di finire accantonata, senza alcun accenno alla sua eventuale messa in produzione. Sulle ragioni di questa indifferenza nei confronti della creatura proposta da Bertone non esistono spiegazioni ufficiali e bisogna ricorrere ad ipotesi. In quel momento, ad esempio, il mercato degli Stati Uniti, destinazione principale delle Gran Turismo scoperte d’origine europea, è percorso da leggi sempre più restrittive in termini di sicurezza e d’inquinamento, al punto che qualcuno teme addirittura il bando totale delle macchine aperte. Un’altra ipotesi riguarda il parabrezza: caratterizzato da un’intelaiatura metallica molto esile e da una forte inclinazione, avrebbe problemi nel fornire una protezione sufficiente in caso di rovesciamento della vettura. Del resto la Roadster è un esercizio stilistico senza compromessi e prima di essere messa in produzione, richiederebbe in ogni caso una serie di modifiche per renderla meno estrema e venire incontro ai gusti di una clientela più vasta. Non se ne fa nulla, dunque, ma poco dopo una delegazione dell’I.L.Z.R.O. (International Lead and Zinc Association), l’ente americano che riunisce i produttori di zinco e piombo, compie una visita esplorativa da Bertone. L’I.L.Z.R.O. ha in mente di creare una show car in grado di dimostrare le svariate applicazioni dei suoi materiali nell’industria automobilistica. Nel progetto viene coinvolto anche John Foster, del centro stile Ford e, infatti, la prima ipotesi riguarda la trasformazione di una Mustang, ma l’idea è decisamente osteggiata dai vertici dell’azienda di Detroit. Ci si orienta così sulla Lamborghini Miura e la visita a Torino ha appunto il compito di sondare la disponibilità di Bertone ad effettuare la trasformazione. Lo stilista piemontese ci sta, ma ancora una volta, come già accaduto con la Ford, è la casa madre a negare il permesso: da Sant’Agata Bolognese l’ing. Paolo Stanzani, direttore tecnico della Lamborghini, fa sapere che l’operazione non è gradita. C’è però in giro la Roadster, che viene offerta ai rappresentanti dell’I.L.Z.R.O.. La vettura non può che colpire la loro immaginazione e Bertone può mettersi finalmente al lavoro per eseguire la trasformazione. Tutta la viteria e bulloneria viene sostituita con materiale di provenienza I.L.Z.R.O., mentre l’estetica della vettura è pesantemente violentata dall’abbondante inserimento di parti in metallo cromato. Di nuovo disegno i cerchi e i fanali posteriori: al posto del volante a quattro razze se ne inserisce uno più tradizionale a tre. La meccanica a vista, potente tratto stilistico che caratterizzava la Roadster, è sacrificata dall’inserimento di un filtro aria che chiude i tromboncini e da una parziale schermatura in similpelle nera. La carrozzeria è verniciata in un verde bronzato e metallizzato su un fondo nero, che grazie alla sua tonalità scura esalta le cromature, mentre gli interni sono ora in velluto verde e giallo. Il risultato estetico è notevolmente più pesante e barocco rispetto all’originale, senza contare che a forza di farcire la macchina di zinco, la Miura Roadster, ora ribattezzata ZN 75, è ingrassata di ben 600 kg rispetto alla P400 originale. Ma il risultato, per quanto discutibile, è conforme ai desideri dell’I.L.Z.R.O., che a partire dal 1969 fa compiere il giro del mondo al suo giocattolo, presentandolo a tutti centri stile dell’industria automobilistica. Cessato il suo ruolo di rappresentanza, la ZN 75 viene messa in condizione di poter girare su strada da Shrade Radtke, ex amministratore delegato dell’I.L.Z.R.O. ai tempi della concezione della vettura, che la usa per qualche anno, prima di regalarla al Museum of Transportation di Boston. L’istituzione se ne disfa dopo aver tolto la selleria in velluto e averla sostituita con pelle color magnolia. In seguito a vari passaggi di proprietà la ZN75 finisce in Giappone, poi torna in America e quindi attraversa l’Atlantico per finire in Francia, dove il collezionista newyorchese Adam Gordon la rileva, riportandola ancora negli Stati Uniti. Il nuovo proprietario, dopo aver presentato il suo acquisto nell’edizione 2007 del celebre concorso internazionale di eleganza di Pebble Beach, ha la felice intuizione di riportare la vettura allo stato originale, affrontando i costi enormi del ripristino (circa 330.000 dollari) e il pesante lavoro di ricerca che è necessario fare per capire com’era esattamente prima di passare nelle mani dell’I.L.Z.R.O. Parti come i fanali posteriori, il volante a quattro razze e gli elementi in alluminio che facevano da cornice al motore hanno dovuto essere ricostruiti ex novo, mentre molta pazienza è stata necessaria per imitare la vernice originale nella tinta e nei riflessi metallizzati. Tutti i pezzi prelevati dalla ZN75 sono stati conservati e fanno parte del corredo della vettura. Così restaurata la Miura Roadster ha partecipato nuovamente al concorso di Pebble Beach nel 2008, risultando seconda nella classe N, dedicata alle vetture Lamborghini nel 45° anniversario dalla sua fondazione, dietro ad una 350 GT e davanti ad una Miura P400 prototipo. A dimostrazione dell’elevata qualità del lavoro svolto dalla Bobileff Motorcar Company di San Diego, la vettura non ha ricevuto appunti da parte della giuria, né sono stati riscontrati errori formali: avrebbe potuto anche vincere la categoria, ma gli è stata preferita la 350 GTV in quanto capostipite di tutte le Lamborghini e dunque più rappresentativa della produzione di Sant’Agata Bolognese. Liberata da quella sua anima fasulla di rappresentante commerciale per l’industria dello zinco, e riportata alla sua natura originale di macchina nata per correre veloce, trasmettendone tutta l’inebriante euforia al suo pilota, la Miura Roadster dimostra di avere ancora un destino caratterizzato da continui passaggi di proprietà. Nel gennaio 2009, infatti, la macchina è stata messa in vendita attraverso la casa d’aste svizzera Kidston, specializzata in transazioni su macchine ad elevato valore. La vendita è stata effettuata nei mesi successivi, presumibilmente per un importo da favola, considerando che, come giustamente faceva rilevare la stessa Kidston in una nota del suo rapporto, “Occorre considerare che la Ferrari costruì non meno di 106 California Spider, 11 275GTB/4 NART Spider e 121 Daytona Spider, la migliore delle quali è passata di mano nel corso di un’asta nel 2007 per circa 2,2 milioni di dollari. La macchina che offriamo non è “una delle” ma è “la””. Quale miglior definizione per un’auto davvero unica.
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La seconda speciale nasce dalla natura stessa della Miura: sin dal Salone di Torino del 1965, atto di presentazione del complesso telaio motore, l'estremizzazione dei concetti che hanno guidato la sua progettazione sono talmente evidenti da rendere ovvio un suo utilizzo nelle competizioni. Probabilmente, è anche diffusa la convinzione che il passaggio obbligato per un giovane marchio di vetture ad alte prestazioni, quale è la Lamborghini all'epoca, sia l'accesso alle corse, in cerca di una definitiva consacrazione della propria immagine. Lo pensa la stampa specializzata, lo pensano i progettisti della P 400, e forse lo pensa anche Ferruccio Lamborghini, se il progetto originario prevede davvero l'elaborazione di due modelli con specifiche diverse, una per l'uso stradale e l'altra, la Sprint, per un utilizzo in gara. Non se ne fa nulla e la Sprint finisce in un cassetto, tuttavia continua l'associazione tra le corse e quella che ormai è diventata la Miura: ci prova qualche cliente che partecipa da privato ad alcune cronoscalate, ma soprattutto ci prova Bob Wallace, collaudatore della Lamborghini. Wallace porta avanti un suo personale programma di sviluppo attorno ad una vettura laboratorio con circa 20.000 Km all'attivo (Miura S, telaio 5084, motore 30744), con il proposito di renderla conforme all'annesso "J" del regolamento sportivo internazionale. È l'atto di nascita della Jota. Prima di tutto Wallace cerca di "spremere" tutta la potenza che il V12 Lamborghini può esprimere: i carburatori originali (4 triplo corpo Weber 40 IDA 3C) vengono sostituiti con altrettanti Weber 46 IDL, portando il rapporto di compressione da 10,4:1 a 11,5:1. La potenza schizza da 370 CV a 440, con il regime di massima erogazione che sale da 7.700 a 8.500 giri/min. La necessità di mettere a terra l'esuberante potenza porta alla maggiorazione della carreggiata posteriore, che passa da 1418 mm a 1540 mm. Vengono introdotti nuovi pneumatici Dunlop Racing 9/15 all'anteriore e 12/15 al posteriore, accoppiati a nuovi cerchi alleggeriti della Campagnolo, che obbligano ad un vistoso allargamento degli archi passaruota. La ciclistica viene modificata con l'adozione di bracci tubolari e ammortizzatori Koni tipo corsa. L'impianto frenante si avvale di quattro dischi autoventilati. Grande cura viene posta nell'alleggerimento di ogni componente, a partire dal telaio che subisce anche un incremento di rigidità torsionale. La carrozzeria è ricostruita in pannelli di Avional rivettati sul telaio, mentre i fari sono protetti da campane di Perspex ed il Plexiglas sostituisce tutte le superfici in vetro. L'insieme di questi interventi porta la vettura ad un peso di soli 900 Kg, con un risparmio di 250 Kg rispetto alla Miura di serie. Un vistoso spoiler anteriore, caratterizzato da ampi baffi laterali, migliora la deportanza all'avantreno, mentre gli sfoghi dell'aria calda vengono liberati dalle griglie di protezione e altri due sono ritagliati ai fianchi del cofano integrale, dietro ai passaruota. Analogamente, le caratteristiche prese d'aria sui montanti della portiera sono liberati dalle protezioni. L'appariscente tappo corsa sul cofano anteriore rappresenta un ulteriore conferma del carattere tutt'altro che mansueto della Jota. Questo interessante esperimento di Wallace non conoscerà mai il responso delle piste, ma sarà utilizzato come base per lo studio della Miura SV. La Jota originale va persa in un disastroso incidente nel 1972, dopo essere stata acquistata dall'Interauto di Brescia, che intendeva farla finalmente correre. La Lamborghini ne allestisce altri quattro esemplari denominati "SVJ" con caratteristiche diverse dalla prima: il telaio n° 4860 finisce in Germania; il n° 4990 ad un cliente haitiano, il n° 4934 allo Scià di Persia e l'ultimo, il n° 5090 ha destinazione sconosciuta. La storia si complica con ulteriori versioni nate dalla trasformazione di Miura normali: nel 1976 la Lamborghini presenta una "Sv Special", profondamente modificata per renderla più performante. Seguono una "Jota Replica Targa" nel 1980, una "SVJ Replica" nel 1981 ed una "SVJ Replica Ufficiale" nel 1986.
Un particolare ringraziamento ad Automobili Lamborghini Holding e al Museo dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia" di Torino.
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