Isotta Fraschini 8A

Il segno del potere

Introduzione

"Che gesto aveva fatto, Fielding? Una mano inarcata sul cuore, l'altra tesa ad introdurre cortesemente l'arrivo dell'auto, come a dire: - Vi presento il denaro? Vi siete già incontrati?" La citazione è tratta da un romanzo dello scrittore inglese Martin Amis, "Money". Non ha importanza che macchina sia quella nel libro, né in quale particolare situazione si trovino i protagonisti. Importa il concetto espresso da queste poche parole: l'auto diventa simbolo del potere e la sua comparsa sulla scena basta a far comprendere all'uomo comune tutta la distanza che esiste tra la realtà che lui vive e quella dorata, racchiusa tra le lamiere. Non importa la carrozzeria, non importa quanti cilindri ha il motore, né la potenza sprigionata, perché la tecnica passa in second'ordine davanti alla magia di un nome capace di evocare la distinzione del potere. Nel nostro caso, questo nome è Isotta Fraschini Tipo 8A.

Uomini o dei

Chi può descrivere l'anima di un'auto meglio di chi l'ha costruita? "Fin dal principio, " recitava un depliant promozionale dell'Isotta Fraschini, edito negli anni '20, " ci siamo sempre proposti un unico scopo: fabbricare la macchina di gran lusso. Ci siamo imposti prima di tutto, e al di sopra di tutto, di produrre la miglior vettura che fosse possibile per qualità e perfezione meccanica. Per svolgere tale programma bisognava imporsi sacrifici non lievi ai quali noi ci siamo sottoposti deliberatamente e coraggiosamente. Non abbiamo mai sacrificato la qualità alla quantità, ma ci siamo sempre preoccupati di adoperare i migliori materiali, le nostre maestranze sono state oggetto di una selezione scrupolosa e severa, i collaudi dei nostri motori e dei nostri chassis sono di una severità assolutamente eccezionale. Oggi il risultato dei nostri sforzi è rappresentato dal nostro chassis 8A, 50/100 HP, con motore a 8 cilindri in linea." Nella pagina seguente, sotto il discreto titolo "Alcuni nomi di nostri clienti", si trovano diligentemente incolonnate 3 "Sua Maestà", 7 "Sua Altezza Reale", 7 "Sua Altezza", 23 "Sua Eccellenza" e 18 titoli nobiliari vari. Per dare una dimensione spaziale a questo fenomeno, basta posare gli occhi sulla provenienza di tanta schiatta: l'Europa è scontata e più ancora l'Italia, ma non certo l'Egitto, l'Abissinia, il Giappone, l'India, l'Argentina e principati orientali che oggi non sapremmo nemmeno collocare sulla carta. Questo elenco, tuttavia, non è niente in confronto a quello in appendice al volume di Angelo Tito Anselmi, "Isotta Fraschini", pubblicato nel 1977. Qui si trova un dettagliato elenco di tutti i telai Tipo 8, con il relativo nome del primo proprietario: negli Stati Uniti, dove si stava vivendo un'epoca di folle ricchezza, la Isotta Fraschini furoreggiava tra banchieri, uomini, d'affari e divi di Hollywood. Alla fine, qualche nome bisogna farlo: Rodolfo Guglielmi, l'uomo assurto a mito eterno con lo pseudonimo di Rodolfo Valentino, si fece costruire una Coupé de Ville foderata in pelle di leopardo ed intarsiata d'oro, seguita da una seconda ancora più fastosa. La terza non la vide mai perché il mito passò a miglior vita nel 1927, prima che potessero consegnargliela. Aveva una 8A Douglas Fairbanks, altro attore celebre che raccolse la palma di bellissimo lasciata da Rodolfo Valentino, così come la collega Marion Davies, amante di Randolph Hearst, magnate della stampa americana. Clara Bow, la rivale sui grandi schermi, ne ordinò una identica, ma con le maniglie e le pedane d'oro. In Europa i gusti erano senz'altro un po' più sobri: i milanesi vollero regalare una 8ASS (versione potenziata con pistoni ad alta compressione) a Pio XI, carrozzata da Cesare Sala. Benito Mussolini, ordinò una Guida Interna, e se un'Isotta aveva lui, non poteva certo farne a meno colui che il fascismo l'aveva ispirato: il Vate, Gabriele D'Annunzio, che sebbene vecchio, sdentato e perennemente al verde, non aveva perso la passione per le gonnelle, per le chincaglierie e per le auto veloci. Anche l'ex triumviro, eroe delle trasvolate oceaniche e futuro governatore di Libia, Italo Balbo, si concesse il possesso di ben due Tipo 8. Ma a questo punto c'è da ridere, perché non erano soltanto i camerati fascisti a gradire le qualità dell'Isotta Fraschini, ma anche i compagni comunisti, quelli che stavano in quello sperduto paese chiamato U.R.S.S. e avevano abolito la proprietà privata e tutti i privilegi. O quasi tutti. Lenin preferiva le Rolls (pare ne avesse sei), ma chi seguì doveva apprezzare anche le Isotta Fraschini, dal momento che alcune Tipo 8 furono piazzate a Mosca intorno alla metà degli anni '20.

Il motore

Alla fine della prima guerra mondiale l'industria meccanica si trovava davanti ai problemi della riconversione industriale, che potevano essere sintetizzati in un unico interrogativo: cosa produrre? L'Isotta Fraschini aveva superato il periodo bellico sfornando dalle sue officine autocarri, motori per aereo ed i propulsori che avevano spinto i famosi M.A.S. fin nella baia di Buccari, una delle basi della marina austriaca nell'Adriatico, per la storica beffa. Dopo la guerra, l'azienda non abbandonò questi campi, ma ritornò comunque alla ragion d'essere che aveva portato alla sua fondazione nel 1900: "SA Fabbrica Automobili Isotta Fraschini". Le automobili in questione erano soprattutto quelle di lusso, dove l'azienda aveva acquisito una solida fama, estendendo il suo mercato oltreoceano grazie ai successi nelle competizioni. Guardando a quanto era accaduto in passato e a quanto stava accadendo negli Stati Uniti, il direttore tecnico della casa, Giustino Cattaneo, ed i suoi colleghi capirono che la strada da seguire passava per un maggiore frazionamento dei motori. La gran parte dei propulsori seguiva lo schema dei quattro cilindri in linea, ma già prima della guerra si era accesa la febbre per i sei cilindri, sempre in linea. L'Isotta Fraschini aveva l'occasione di andare oltre con un'architettura mai prodotta in serie: un motore ad otto cilindri. Nasceva la leggenda del Tipo 8. Con un alesaggio di 85 mm ed una corsa di 130 mm si ottenne la mastodontica cilindrata di 5.898 cc. Stabilite le misure essenziali, non si lesinò sui materiali: il monoblocco era fuso in un pezzo unico quando ancora molti fabbricavano motori unendo più blocchi assieme. Carter e pistoni erano in lega d'alluminio, mentre l'albero a gomiti era forgiato in acciaio cromo-nichel. Avendo affrontato la costruzione di potenti motori aeronautici, l'Isotta Fraschini possedeva già le conoscenze per costruire un motore con alberi a camme in testa e sapeva quali vantaggi potesse offrire un simile sistema, ma per privilegiare l'insonorizzazione e l'elasticità di marcia si ripiegò su un più tradizionale schema ad aste e bilancieri, comandati da un albero a camme inserito nel basamento. Le due valvole, però, erano in testa e non laterali come su molti motori contemporanei. La lubrificazione era assicurata da una pompa ad ingranaggi e la circolazione dell'acqua da una pompa centrifuga. L'alimentazione era fornita da due carburatori Zenith, comandati e sincronizzati tra loro da un meccanismo a bacchetta, mentre il corretto flusso della benzina era garantito da una vaschetta a depressione, montata davanti al parafiamma. La nuova unità motrice erogava una potenza di 90 CV ad un regime di rotazione massimo di 2.400-2.500 giri/min. L'elevata coppia consentiva l'adozione di un cambio a tre marce + RM con leva al centro, collegato al motore da una frizione a dischi multipli. Il moto al ponte posteriore in acciaio stampato era generato da un albero di trasmissione con giunti cardanici. Il tutto era assemblato su un telaio costituito da due robusti longheroni e da traverse, caratterizzato da un passo di ben 3.700 mm e da carreggiate di 1.410 mm. Il molleggio del telaio era fornito da balestre trasversali e da molle tipo Watson, che garantivano un elevato comfort di marcia ai passeggeri. I freni a tamburo erano montati sulle quattro ruote anziché sulle sole posteriori, come d'uso all'epoca: era questo un brevetto Isotta Fraschini risalente al 1910, di cui la casa faceva particolare vanto. Del resto un buon sistema frenante era più che necessario, visto il peso di 1.350 Kg per il solo complesso telaio-motore. A questa già considerevole massa andava poi aggiunta la carrozzeria, di cui non si occupava l'Isotta Fraschini. Cosa normale per una vettura di tale lignaggio, era facoltà del cliente scegliere carrozziere e allestimento secondo i propri gusti. Commercializzata come Tipo 8 50 HP, la nuova vettura fu prodotta in 600 esemplari, conquistando una solida fama e ponendo le basi per un ulteriore passo in avanti, rappresentato dal successivo Tipo 8A. In via Monterosa, sede storica dell'Isotta Fraschini, si era compreso che, date le buone condizioni del mercato, c'era spazio per esagerare. I primi interventi riguardarono il motore, che con un aumento dell'alesaggio a 95 mm, raggiunse la ciclopica cilindrata di 7.370 cc. Il regime di rotazione massimo rimaneva stabile sui 2.500 giri/min, ma la potenza saliva a 115 CV. L'accensione non si avvaleva più di un magnete ad alta tensione, ma di un sistema dinamo-magnete della Bosch, mentre nel 1928 sarebbe arrivato un moderno schema dinamo-spinterogeno. Il motorino d'avviamento, che agiva sulla corona del volano, aveva una potenza di 1.2 CV, ma in caso di guasto era sempre disponibile la classica manovella. Qualità oggi poco apprezzata, visto il caos che si concentra nei cofani delle vetture moderne, questo propulsore è anche bello da vedere, sia per quel suo aspetto "Art Decò", sia per l'estremo ordine con cui sono montati gli accessori ed i cablaggi. Per venire incontro alle esigenze dei clienti esigenti, l'Isotta Fraschini aveva preparato anche motori 8AS e 8ASS, caratterizzati da un più elevato rapporto di compressione, valvole più grandi e collettori d'aspirazione riportati. Queste unità erano in grado di erogare tra i 155 ed i 160CV ad un regime di circa 2.800 giri/min. Per assecondare le caratteristiche del nuovo motore, la trasmissione fu rivista, adottando la terza in presa diretta grazie alla generosa coppia del motore, mentre al cliente veniva offerta una gamma di coppie coniche differenti, da scegliere sulla base del peso finale della vettura. La politica di ampliamento delle opzioni fu estesa anche ai telai, approntando un passo corto da 3.400 mm, presumibilmente più adatto a versioni sportive, e uno definito normale da 3.700 mm. I longheroni in acciaio stampato, rettilinei sulla Tipo 8, erano ora divaricati verso il ponte posteriore per migliorare la resistenza torsionale ed offrire una maggiore base di appoggio per le carrozzerie. Altra innovazione era l'inserimento di un servofreno a depressione, che addomesticava il sistema meccanico. Modifiche di dettaglio riguardarono lo stile del radiatore, ora più arrotondato e dotato del nuovo marchio IF rettangolare, con lettere bianche in campo blu, al posto del vecchio tondo rosso. Un telaio così grande e così ben motorizzato, offriva ai carrozzieri la possibilità di sbizzarrirsi su circa 3 metri di lunghezza. Castagna, gli Stabilimenti Farina, la Carrozzeria Italiana Cesare Sala, Fleetwood, Lance Field, Hooper, Ramseier, Lotti, per citare alcuni nomi di carrozzieri che ebbero modo di lavorare su telai 8A. Non era raro che le loro creazioni uscissero vincenti dai concorsi di eleganza, all'epoca molto in voga, portando pubblicità per se ma anche per l'Isotta Fraschini, secondo un circolo virtuoso che attraeva sempre più clienti verso il marchio italiano. Alcune di queste vetture vennero costruite con il brevetto Weyman, che prevedeva l'applicazione di pegamoide, una specie di pelle, su telai di legno. La pegamoide era resa più resistente dall'applicazione di crine di cavallo e tela cerata. Il sistema aveva il vantaggio di contenere il peso delle carrozzerie, ma era molto complicato e dopo un iniziale successo negli anni '20, venne poi abbandonato. In tutto la Tipo 8A totalizzò circa 900 esemplari, prodotti dal 1924 al 1932: un indiscutibile successo per una vettura che costava una follia. Nel 1929 si parlava di 140.000 lire (circa 150.000 Euro) per il solo telaio. Una Torpedo Turismo 4-6 posti veniva 170.000 lire, una Torpedo Gran Sport 175.000, una limousine Coupé a 6 posti 180.000 lire.

La Storia

Sul viale del tramonto

Tra le dive di Hollywood che possedevano una 8A c'era anche Gloria Swanson, regina del muto e amante di Joseph Kennedy, il padre di JFK, che all'epoca aveva consistenti interessi nell'industria cinematografica. Ironia della sorte, la Swanson incontrò un'altra Isotta Fraschini nella sua vita: la sontuosa 8A usata nel celebre "Viale del tramonto". Realtà e finzione si mescolano nella trama di questo film diretto da Billy Wilder: la storia narra di uno spiantato scrittore, interpretato da William Holden, che sfugge ai creditori trovando rifugio nella sontuosa villa di una vecchia diva del cinema muto, Norma Desmond (Gloria Swanson). Assunto per correggere le bozze della sceneggiatura che dovrebbe segnare il rientro dell'attrice sul grande schermo, il giovane ed aitante uomo rimane ben presto intrappolato in un sistema assurdo e a tratti ridicolo: Norma Desmond vive tra i rottami della sua celebrità, rifiutando l'ombra e la vecchiaia. Gli avanzi del suo mito comprendono un regista adorante che si è ridotto a farle da cameriere ed autista (interpretato da Eric von Stroheim, che regista lo era davvero), una sontuosa villa e un'imponente Isotta Fraschini 8A Landaulet de Ville, carrozzata da Castagna. Quella vettura (telaio 1.636) è oggi conservata al Museo dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia" a Torino. La sua storia rimane in gran parte un mistero: dal volume già citato di Angelo Tito Anselmi, risulta che la vettura fu prodotta nel 1929, ma nulla si sa del primo proprietario. Presumibilmente esportata negli Stati Uniti, scomparve nel nulla, forse consegnata a qualche cliente, forse rimasta invenduta a seguito della drammatica crisi del 1929. Poi, nel 1950, ricomparve sul set del film, debitamente tirata a lustro e pescata chissà dove. Dopo la parentesi cinematografica, ancora oblio, fino al 1972, quando tre signori torinesi la rintracciarono a Los Angeles, presso una società di noleggio, e si offrirono di acquistarla per conto del Museo. La transazione ebbe corso felicemente e nell'aprile del 1972 la vettura giunse al porto di Genova dentro un container. I tre signori torinesi si occuparono anche del suo restauro, al termine del quale la vettura entrò effettivamente in possesso del museo. E' un oggetto impressionante per il suo effetto scenico e ancora oggi incute distanza e soggezione nell' osservatore. La configurazione Landaulet de Ville lascia l'autista allo scoperto e offre una sontuosa cabina per proteggere i passeggeri. Nell'eventualità di una bella giornata di sole, un soffietto permette di abbassare la capote in corrispondenza del divanetto posteriore, lasciando gli augusti passeggeri in vista del pubblico incuriosito. Il frontale è dominato dal grosso radiatore e dai fari rotondi: al riflettore parabolico argentato sono abbinate una lampadina di forte potenza e una seconda ad illuminazione ridotta per la marcia in centri abitati. Su questo esemplare i proiettori sono collegati da una sottile barra orizzontale che al centro ribadisce il marchio "IF". Sopra il radiatore una statuetta alata e protesa in avanti: a differenza delle sue principali concorrenti, Rolls Royce e Hispano Suiza, la Isotta Fraschini non aveva una specifica figura per il tappo del radiatore. Dalla base del telaio si divaricano i parafanghi come le ondate sollevate da un potente motoscafo. Sulla fiancata spicca la potenza visiva del lungo e massiccio cofano che, segnato dai fitti intagli laterali per lo sfogo dell'aria calda e parzialmente coperto dalle ruote di scorta fissate ai lati, trova la sua fine nel parabrezza leggermente inclinato e sdoppiato, con ciascuna delle due parti sollevabile per regolare il flusso d'aria verso l'autista. Il tergicristallo è presente solo sulla porzione destra, in corrispondenza del posto guida. Alle spalle dell'autista la cabina per i passeggeri, caratterizzata da ampie superfici vetrate, incorniciate in scintillanti profili cromati. La parte bassa della fiancata è caratterizzata dalle evoluzioni dei parafanghi, che scendono dolcemente verso la base del telaio per costituire le larghe pedane di accesso, dove è alloggiata la cassetta per gli attrezzi, e poi ancora il parafanghi posteriori. Le robuste ruote a razze, fissate con i grandi mozzi cromati, calzano pneumatici 33x6,75 e contribuiscono all'imponenza della struttura. Un doppio, sottile bordo bianco interrompe il blu della carrozzeria poco sotto la linea di cintura e, nel centro della portiera per i passeggeri, due eleganti iniziali: ND, Norma Desmond. Sul posteriore i paraurti sono sdoppiati, lasciando in evidenza la targa californiana. La coda della carrozzeria sfuma come una vasca da bagno, mentre sul soffietto compare uno stretto lunotto. Non esiste bagagliaio, ma all'occorrenza esistono i ganci ed i supporti per fissare un capiente baule, mentre sulla destra si può notare il tappo del serbatoio da 110 litri, alloggiato dietro al differenziale. Il vano destinato all'autista è caratterizzato dalla lunga panca in pelle nera. La plancia è in elegante mogano e al suo centro accoglie il quadro strumenti, con gli indicatori rotondi su fondo bianco, mentre gli interruttori sono concentrati su una consolle rotonda. Essa include la chiavetta per sbloccare il contatto del magnete, una spia luminosa, in alto, e un commutatore per immettere corrente a magnete, luci e al clacson. Sul pavimento la robusta e lunga leva del cambio, affiancata dal freno a mano. Il volante a quattro razze è di grosso diametro e sul suo perno si trovano le levette manuali di regolazione del motore: quella a destra comanda l'apertura dei carburatori, quella ad ore dodici regola l'anticipo dell'accensione e l'ultima, a sinistra, sovrintende alla dosatura della miscela. E poi c'è la stanza del tesoro: un clock e lo sportello si apre su un mondo soffice e ovattato. La fuori il rumore del traffico e del possente motore, la polvere e talvolta l'acqua. Dentro il tono sommesso di una conversazione. Niente esagerazioni, almeno su questo esemplare, ma una sobria eleganza, con le cornici interne dei finestrini in mogano, impreziositi qua e là da inserti in pelle di serpente. Le pareti e i divanetti sono foderati da panno rosa, mentre il pavimento è ricoperto da una moquette di un tenue verde acqua. Il divano posteriore offre due comodi posti separati da un bracciolo, ma la capienza può essere aumentata utilizzando gli strapuntini ripiegati contro il divisorio: due comode poltroncine fronte marcia. Davanti ai passeggeri, montato sul divisorio, un mobiletto con inserti di pelle che offre vani porta oggetti e un armadietto centrale, protetto da uno sportellino. Sopra, i vetri scorrevoli che permettono di comunicare con l'autista. Sul panno rosa che fodera le portiere, sono ricavate tasche porta documenti, mentre in alto, inserite nel mogano, le grosse manovelle cromate che permettono di agire sui finestrini. Non sono discendenti soltanto questi, ma anche quelli in corrispondenza dei passeggeri posteriori. Madame può così rivolgersi all'attonito passante senza doversi spostare in avanti, verso gli sportelli: "Perdonate, buon uomo…" Lo sguardo corre e si posa ora su un capo ora sull'altro, e tutto ammira, ma i pensieri registrano un buco in quell'immagine, come se mancasse qualcosa di importante. E' la fantasia che ricostruisce quello strappo sulla tela: un uomo con gli stivaloni neri ai piedi, la divisa e un curioso berretto a visiera che richiude il capo in uno sbuffo. Il soffietto è abbassato e due personaggi si lasciano ammirare al passaggio della vettura: una donna con la veletta calata sul viso. La rete dell'inganno non lascia penetrare un giudizio: forse una bella donna non lo è più, ma quel che traspare sembra fascino. Al suo fianco un giovane aitante, con il lieve imbarazzo negli occhi di chi non sa più la strada che ha preso la sua vita. Gli eventi lo sorpassano ed egli li segue con ansia, nella speranza di raggiungerli, ma è una pia illusione perché non basterebbero tutti i cavalli dell'Isotta Fraschini per riguadagnare tutto il terreno perduto.

La festa e' finita

Tra tutto il materiale affannosamente scartabellato per questa ricerca, una vecchia immagine, un po' sfocata dal tempo, è rimasta impressa nella testa del sottoscritto: un'enorme salone dalle volte alte e porticati sopraelevati che si affacciano sulla scena. Le pareti sono dominate dal marmo e da minute decorazioni che l'occhio non riesce nemmeno a cogliere in tutta la sua finezza. Non è oro, ma sembra, forse per via di quella sua lucentezza e per quella sensazione di tranquilla solidità che regala allo spettatore. In quel salone sono radunate in esposizione scintillanti Isotta Fraschini. La didascalia ci informa che si tratta del "Salone della Fuoriserie", tenutosi all'Hotel Commodore di New York nel dicembre del 1929. Il crack, il giovedì nero che aveva lasciato gli Stati Uniti in brache di tela, risaliva al 24 ottobre dello stesso anno. Eppure la folla accorse a quell'evento, quasi volesse tentare vanamente di aggrapparsi a quel sogno che non c'era più, svanito nel nulla come il valore delle azioni. La festa era finita e non solo per la gente. Proprio in quel 1929 la Isotta Fraschini preparò la Tipo 8B: dalle concessionarie, soprattutto quelle americane, era stato chiesto alla direzione di mettere mano alla 8A, troppo attempata rispetto ad una concorrenza sempre più agguerrita. A causa di una crisi finanziaria interna, lo sforzo fu modesto e il risultato anche: il motore a parità di cilindrata fu portato ad una potenza di 160 CV. Fu sostituita la frizione con un tipo monodisco a secco, insieme ad un nuovo cambio tipo Wilson, sempre a tre marce+RM. Se ne produssero appena un centinaio di esemplari dal 1930 al 1932: certo, il crollo del maggior mercato di esportazione non aiutò, ma anche senza quell'evento, probabilmente, le cose non sarebbero andate tanto diversamente. Nel 1927 il 20,8% del fatturato dell'azienda veniva dall'auto, ma nel 1929 tale quota era già calata al 13%: il resto proveniva dalla costruzione di autocarri, di motori marini, aeronautici e statici. Nel 1932 si decise di eliminare definitivamente la divisione auto. Non fu una decisione priva di rimpianti, perché già nel 1936 Giuseppe Merosi stava lavorando al progetto di una nuova vettura. Non se ne fece nulla, ma nel 1946, quando l'azienda era ormai da tempo entrata nell'orbita della Caproni, si tentò un ritorno in grande stile con la 8C Monterosa, un telaio a motore posteriore disegnato da Fabio Luigi Rapi e Alessandro Baj. La Monterosa fu costruita in tutto in sei esemplari vestiti da Zagato, Touring e Boneschi in varie configurazioni: nonostante le carrozzerie moderne ed eleganti, il progetto non decollò mai e nel 1949 il Fim (fondo per il finanziamento dell'industria meccanica) mise la parola fine ad ogni ulteriore tentativo, provocando la liquidazione dell'azienda. L'ultimo tentativo di ritornare sul mercato risale al 1993, quando la Rayton Fissore acquisì dalla Mecfin i diritti sul marchio per produrre una nuova vettura negli ex stabilimenti Oto Breda Sud, a Gioia Tauro. Tanto per cambiare, un altro buco nell'acqua. Restano i musei ed i collezionisti privati, che con la loro passione continuano a far vivere questo ed altri miti dell'automobilismo. Purtroppo, il Viale del Tramonto è una strada a senso unico, ma le foglie cadute dai suoi alberi non scompaiono mai e restano in terra con i loro accesi colori autunnali, permettendoci di continuare a ricordare.

Stefano Costantino

Un cortese ringraziamento al Museo dell'Automobile "Carlo Biscaretti di Ruffia" di Torino per aver messo a disposizione l'archivio, e per aver gentilmente concesso di fotografare il suo prezioso esemplare.

  • Angelo Tito Anselmi, "Isotta Fraschini", Milano, 1977.
  • Isotta Fraschini, "Manuale di Uso e Manutenzione Tipo 8A", Milano, 1929.
  • Isotta Fraschini, "Coi migliori omaggi della Fabbrica Automobili Isotta Fraschini", depliant pubblicitario risalente agli anni '20.
  • Vittorio Fano, "L'italiana delle regine", in "La Manovella", Ottobre 1991.
  • Angelo Tito Anselmi, "Aspettando la resurrezione", in "Ruoteclassiche", Gennaio 1994.
  • Alfredo Albertini, "Pretendevano il trono", in "Ruoteclassiche", Ottobre 1996.
  • Gino Rancati, "Farina del suo sacco", in "Ruoteclassiche", Settembre 1996.
  • Geoffrey Perret, "Kennedy", Random House, New York, 2001.
  • Martin Amis, "Money", Giulio Einaudi Editore, Torino, 1999.

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