Una pista è un po' come uno spartito che ogni pilota interpreta a modo suo, frenando in un punto piuttosto che in un altro, tagliando una curva in un determinato modo o buttandocisi dentro con il cuore piuttosto che con il cervello. Oggi il grande direttore d'orchestra occulto è la telemetria e la Formula 1 è uno sport quasi del tutto scientifico, che lascia ben poco spazio alla fantasia, ma un tempo era proprio solo una questione di feeling del pilota con lo strumento a disposizione, di sensibilità, talento e ovviamente di "pelo". E i solisti più abili erano quelli che riuscivano a personalizzare le note disegnate sulla pista. Ogni musicista ha uno spartito che conosce meglio degli altri, quello che suona a occhi chiusi, conoscendone le minime sfumature a memoria. Ogni pilota ha una pista che per le sue caratteristiche si adatta meglio al suo stile di guida. Monza ha avuto grandi interpreti e basta scorrere l'albo d'oro dei vincitori per trovarci i più bei nomi della storia automobilistica. Tra questi, colui che può essere definito il solista della velocità negli anni '70, Ronnie Peterson, che sull'autodromo brianzolo ottenne tre dei suoi dieci successi in Formula 1, scrivendovi pagine memorabili e rivelando al contempo parecchio sulla sua personalità. Non è un caso che l'uomo considerato il più veloce del suo tempo, abbia ottenuto simili risultati su una pista come Monza, da sempre tempio della velocità per le sue caratteristiche: la vecchia Monza con il lungo ed eterno rettilineo davanti alle tribune, che all'inizio degli anni '70 terminava soltanto nella veloce e ampia svolta della Curva Grande. Poi giù fino alle due di Lesmo, le curve del cuore, pericolose rapide su un fiume d'asfalto, dove la linea di separazione tra la pista e una rovinosa uscita era un esile filo. Una scatenata corsa contro il tempo verso la quieta Ascari e di lì era soltanto questione di chiamare tutta la potenza per arrivare alla Parabolica: il curvone da quarta piena, il tavolo verde della Brianza, dove se arrivavi all'ultimo giro in bagarre ti giocavi tutto nell'uscita, e non importava un accidenti se c'eri entrato per primo. La Parabolica non ha mai guardato in faccia a nessuno. Monza, in fondo, è tutta qui: una manciata di curve strappacuore fra prati e boschi, dove puoi incontrare una macchina da corsa tanto quanto una elegante fanciulla a cavallo: scegli tu dove giocarti la fortuna, segui ciò che ti suggerisce il cuore. E il ragazzo, nato a Orebro il 14 febbraio 1944, la sua scelta l'aveva fatta già da tempo quando giunse a Monza per la prima volta, e forse senza nemmeno chiedere permesso alla razionalità o alla coscienza: non poteva essere diversamente per il primogenito di un panettiere con l'hobby di correre con monoposto costruite in proprio. No, non poteva esserci altro destino per il bambino che scorrazzava nella severa campagna svedese con un trattorino a motore costruitogli dal padre; che a dieci anni saltò di nascosto su una Renault Fregate nuova di zecca e, messala in moto, si esibì sulla pista ghiacciata di Hialmaren, sotto lo sguardo un po' attonito e un po' paternamente incacchiato di Bengt Peterson, che stava preparando il tracciato per l'annuale gara. C'era stata la scuola, poi un lavoro in una concessionaria Renault e quindi un posto da tecnico per ascensori, ma il cuore batteva invariabilmente per i motori, ai quali aveva dedicato tutto il suo tempo libero e i denari a disposizione. Prima i kart costruiti dal padre, roba fina con freni a disco e ruote in magnesio, con i quali si impose in patria e nel resto d'Europa tra il 1962 e il 1966, poi con la Formula 3, combattendo in casa con un brutto cliente come Reine Wisel e in Europa con gente come Regazzoni, Ganley, Fittipaldi e Schenken. Dunque, quando Ronnie giunse a Monza nel '69 per debuttare in Formula 2 con una Tecno ufficiale, piazzandosi settimo al traguardo, aveva già un nutrito bottino di vittorie alle spalle e una certa fama di pilota veloce che calamitava l'interesse dei team manager della Formula 1. Chi si fece sotto apertamente fu Alan Rees, uno dei soci della nascitura March, che promise mari e monti: la Formula 3 con la nuova monoposto 693, che infatti lo svedese portò al debutto a Cadwell Park nello stesso anno, giungendo terzo a causa di una foratura. Poi la Fomula 2 con un team di punta come il Malcom Guthrie Racing. Infine la Formula 1 con una 701, la prima March per la massima serie.
L'8 settembre 1970 Peterson si ripresentò sull'autodromo di Monza e, almeno nominalmente, Rees, Mosley e soci avevano mantenuto le loro promesse. Era arrivata la Fomula 2 e dopo parecchie tribolazioni anche la Formula 1, anche se a stagione cominciata e con una soluzione di compromesso. La March 701 era una macchina mediocre, costruita in economia, anche perché di soldi nel team inglese ne giravano ben pochi. In quelle condizioni quasi disperate, Max Mosley, mente commerciale dell'azienda, si era dimostrato terribilmente abile, riuscendo a mascherare i problemi e a sbolognare con il sorriso sulle labbra un buon numero di monoposto: la STP di Andy Granatelli ne acquistò un paio per Andretti e Amon; la Porsche ne comprò un'altra per tenere buono il suo pupillo Siffert che voleva la Formula 1 a tutti i costi. Ken Tyrrell aveva divorziato dalla Matra e acquistò altre due macchine per Stewart e Cevert. Dal Pilota scozzese sarebbe poi venuta l'unica vittoria della 701, nel Gran Premio di Spagna. Un'altra monoposto fu invece ceduta al pilota della BMW Hubert Hahne, che davanti alla scarsità del mezzo arrivò ad intentare una causa contro la March. Restavano sul tavolo gli impegni presi con Ronnie Peterson, che andava sistemato da qualche parte: Mosley tirò fuori l'ennesimo coniglio dal cilindro, piazzando il pilota svedese presso l'Antiques Automobiles Racing Team di Colin Crabbe; un telaio, un motore Cosworth, tanta passione e poco più. Nominalmente Peterson era in Formula 1, anche se in pista lo si vide ben poco. Riuscì comunque a piazzare un buon biglietto da visita al debutto sul difficile tracciato di Montecarlo, dove aveva già vinto il GP di Formula 3 l'anno prima: 12° in qualifica e 7° al traguardo. Con i mezzi a disposizione un miracolo! "Scrivete che Ronnie è fantastico, ma non diteglielo." Fu la dichiarazione di Mosley, sempre più convinto di avere fra le mani la gallina dalle uova d'oro. Il resto della stagione fu un disastro, con una collezione di motori rotti e di penuria di mezzi, tanto da dover saltare il GP d'Austria per mancanza di ricambi. La sua prima Monza da pilota di Formula 1 fu una mezza delusione: 13° in qualifica, davanti a gente come Beltoise, Pescarolo, Gethin, Stommelen, Amon e Schenken. Ma in gara, al 36° giro, dovette ritirarsi mestamente. Tempo un anno e Ronnie si ripresentò in Brianza con una situazione completamente ribaltata: niente più Antiques Automobiles Racing Team, ma un solido rapporto con STP March Racing Team, sotto le cure dirette della casa. La 701 era stata sostituita dalla 711, una macchina migliore anche se un po' esotica, con quell'ala stile Spitfire piazzata sopra il muso. La monoposto risultò particolarmente congeniale a Ronnie, che ne fu il miglior interprete. In più di un'occasione il binomio Peterson - 711 era stato in lizza per la vittoria, cogliendo 2 secondi posti (Monaco, Gran Breatagna) e due piazzamenti nei punti (4° in Olanda, 5° in Germania), mostrando costanza di rendimento in gara, più che velocità nel giro singolo. La prima vittoria in un Gran Premio sembrava soltanto una questione di tempo per il giovane svedese che stava bruciando velocemente le tappe. In qualifica Ronnie riuscì ad acchiappare un buon 6° posto dietro Amon (poleman su Matra), Ickx (Ferrari), Siffert (BRM), Ganley (BRM) e Cevert (Tyrrell). Partire nel gruppo dei migliori era già un punto a suo favore. La stampa definì brutto quel Gran Premio d'Italia 1971, perché dominato dal fenomeno dei grupponi e delle scie, che davano la sensazione ai palati fini di assistere ad uno spettacolo da circo, senza alcuna finezza. Ma in quei grupponi e sia pure sfruttando le scie, fu una dura battaglia di coraggio e cervello. La prima parte della corsa fu dominata dalla comitiva Regazzoni, Peterson, Siffert, Ganley, Ickx, Amon, Gethin e Cevert, con i primi due che se le davano di santa ragione. Poi iniziò la selezione naturale: la corsa perse i due protagonisti del campionato, Ickx e Stewart, mentre anche Regazzoni doveva abbandonare la partita. La seconda parte della corsa vide quindi in serrata bagarre Peterson, Cevert, Hailwood, Gethin, Ganley e Amon, in una sorta di tutti contro tutti. C'era da scommettere che la corsa si sarebbe giocata all'ultima curva, la Parabolica, come nel 1953, quando aveva vinto Fangio contro Ascari, Marimon e Bonetto, con l'Alberto saldamente in testa, ma beffato all'uscita della curva dalla presenza di un doppiato che lo aveva spedito in testacoda. Così, quando Ronnie si presentò in testa alla Parabolica per la volata finale, bastò arrivare leggermente lungo e scomposto in frenata per aprire la porta alla BRM di Gethin, che gli si affiancò all'interno e poi, una volta sul rettilineo, sfruttò tutta la superiore potenza del suo 12 cilindri, battendo lo svedese per un misero centesimo di secondo. Dietro a loro Cevert, staccato anch'egli di un'inezia. Da una parte la delusione per essere stato giocato così dalla fortuna e dall'altra la consapevolezza di essersi ancora una volta confermato come la sorpresa del campionato. Dopo il Gran Premio d'Italia Peterson raggranellò ancora un secondo posto in Canada ed un terzo negli Stati Uniti, raccogliendo i punti necessari a piazzarsi alle spalle dell'iridato Jacky Stewart nel mondiale. Suo, invece, il titolo Europeo di Formula 2. La Monza del 1972 fu per Ronnie una corsa nell'ombra: 24° in qualifica e 9° in gara. Non per colpa sua, e nessuno nell'ambiente nutrì dubbi sulla bontà del suo talento in una stagione difficile. Il problema era quel maledetto bidone della March 721X, poi G, che non ne voleva sapere di marciare a dovere. Un'annata deludente per lo svedese come per il suo compagno di squadra, un giovanissimo Niki Lauda, che inizialmente patì non poco la maggiore velocità dello svedese. Ronnie le soddisfazioni dovette andarsele a cercare con i prototipi, cavalcando l'onda travolgente della Ferrari 312 PB: con la vettura di Maranello, infatti, lo svedese s'impose alle 1.000 Km di Buenos Aires e del Nurburgring in coppia con Tim Schenken, portando il suo contributo alla squadra nella conquista del Mondiale Marche 1972. La sua collaborazione con la Ferrari non andò mai oltre quell'esperienza e nel suo "Piloti che Gente" il Commendatore ricordò Peterson con un ritratto sintetico: "Alto, biondo, dinoccolato: un tipo come Hawthorn. Corse con le vetture Sport prototipo Ferrari nel 1972 ed era, come in Formula 1, pilota estremamente veloce." Dunque, per Ronnie era tempo di cambiare aria e le offerte non gli erano certo mancate, ma chi lo aveva pressato maggiormente era la Lotus: da Colin Chapman e Peter Warr si erano innamorati della sua velocità. Lo avrebbero voluto in squadra già nel '72, ma il contratto che Mosley aveva fatto firmare al giovane Ronnie in tempi non sospetti era blindatissimo e lo obbligava a restare in March ancora per un anno. Quel contratto "Lo aveva firmato" ricordò poi ironicamente Peter Warr anni dopo "quando non conosceva alcuna parola d'inglese oltre a Formula 1. E quando Max Mosley proferì le parole magiche Ronnie firmò." Oltre che blindato, l'accordo era anche povero dal punto di vista economico, considerando che la stagione 1971, in cui si piazzò secondo nel mondiale, portò nelle tasche del giovane pilota la miseria di 10.000 sterline. Più soldi, una squadra che aveva appena vinto il titolo con Emerson Fittipaldi, una macchina, la 72, che a distanza di tre stagioni dalla sua presentazione mostrava di essere ancora un punto di riferimento per gli avversari. Ma la lunga relazione che Ronnie intrattenne con la Lotus non fu affatto semplice. Monza 1973 rappresentò l'esplosione di una rivalità tra i piloti che aveva snervato la squadra lungo la stagione e che sarebbe scaturita nel passaggio di Fittipaldi alla McLaren per l'anno seguente. Il brasiliano non dovette essere molto contento dell'arrivo di un pilota di fama come Peterson, quando nelle stagioni precedenti si era trovato al fianco di comparse agevolmente schiacciate dalla sua classe. Secondo Peter Warr, le cose partite male proggredirono peggio, perché durante la stagione Ronnie si ritrovò spesso disperso negli assetti della 72, dove Fittipaldi eccelleva per attitudine e maggiore esperienza. Così, la squadra finiva per passare le regolazioni del brasiliano sulla monoposto dello svedese, il quale messo in carreggiata usciva e fermava i cronometri su un tempo migliore del rivale (a Barcellona addirittura di 1"9).
Peterson ebbe modo di sdebitarsi di quei "prestiti" di assetto, impegnandosi ad aiutare Fittipaldi nella sua rincorsa a Stewart per la conquista del titolo. Nel Gran Premio d'Austria Ronnie lasciò la porta aperta al compagno di squadra perché s'involasse verso un'utile vittoria, che non colse per la rottura di una condotto della benzina. Per restare in corsa nel campionato, Fittipaldi doveva vincere ad ogni costo il Gran Premio di Monza e i successivi. La cosa venne ritenuta poco probabile dalla squadra e non fu impartito alcun ordine a Peterson, il quale di suo si guardò bene di cedere il passo. Sul tracciato brianzolo Ronnie colse una brillante pole position, mettendosi dietro le McLaren di Hulme e Revson e il compagno di squadra. Alla partenza del Gran Premio Fittipaldi bruciò le due M23, ma non riuscì ad avere ragione dello svedese nonostante i continui tentativi di passarlo. Lorenzo Pillogallo, sul Corriere della sera sintetizzò così la corsa: "Peterson e Fittipaldi sono andati via alla disperata formando un convoglio nero, bello a vedersi solo per il signor Colin Chapman, padrone della Lotus." Dunque, vittoria per Ronnie. A fine stagione il bottino dello svedese presentava 4 vittorie (Francia, Austria, Italia e Stati Uniti), 2 secondi posti (Svezia e Gran Bretagna), 1 terzo (Montecarlo) e ben 9 pole position (Brasile, Spagna, Belgio, Svezia, Gran Bretagna, Olanda, Italia, Canada e Stati Uniti). "Senza ombra di dubbio," ammise poi Warr "Ronnie avrebbe potuto vincere il Campionato Mondiale senza i problemi al cambio che lo costrinsero al ritiro a Barcellona e a Zandvoort." Apparentemente tutto filava liscio come l'olio: Fittipaldi emigrato alla McLaren sbattendo la porta, Ronnie prima guida al fianco di un pilota di esperienza, ma già in fase calante (almeno per quanto riguardava la Formula 1) come Jacky Ickx, una squadra di primordine che credeva nella sua velocità e nel suo talento, una monoposto nuova in arrivo che doveva rappresentare un ulteriore salto di qualità rispetto alla 72. Nel 1974 Monza offrì a Peterson l'occasione per un brodino: non che tutto fosse andato male e le vittorie nei Gran Premi di Montecarlo e Francia ne erano una piena testimonianza, ma dalle aspettative iniziali alla realtà che si era dispiegata nel corso dell'anno si era verificata una pesante differenza. Prima di tutto la monoposto nuova, la Lotus 76, che nonostante una bella linea molto rastremata, aveva mostrato poche qualità. Partiti con l'intenzione di costruire una macchina più leggera della 72 ci si era ritrovati con una più pesante di 45 chili. La frizione semiautomatica, comandata da un pulsante sulla leva del cambio, che doveva velocizzare il passaggio delle marce senza ricorrere al pedale, pur essendo un'ottima idea che precorreva i tempi, si rivelò una inesauribile fonte di guai. Ben presto i piloti domandarono un ritorno alla vecchia 72, sottoposta all'ennesimo aggiornamento. In quel frangente a Ronnie mancò la capacità di fornire un valido riscontro ai tecnici nel provare e mettere a punto la vettura.
"Ronnie non era un buon collaudatore, ma era incredibilmente dotato." racconta Ralph Bellamy, progettista della Lotus in quegli anni, nel libro di Michael Oliver sulla Lotus 72. "In termini di controllo della vettura e di abilità era incredibile. Ma tendeva a girare intorno ai problemi. (nda stesse parole usate da Peter Warr.) Ricordo a Zandvoort, mentre assistevo la sua macchina lui venne da me e mi disse "C'è sovrasterzo, terribile sovrasterzo." Così regolai diversamente la macchina per cercare di risolvere il problema. Lui tornò indietro e disse "Ancora sovrasterzo." Io dissi "Ronnie ho cambiato molto la macchina, cosa diavolo c'è che non va?" Lui rispose "Bene, dal momento che non posso entrare in curva, devo buttarla dentro e lei scivola in sovrasterzo ed è veramente difficile da controllare!" Dissi "Per l'amor di Dio, tu hai del sottosterzo!" E lui disse "Bene, sì, suppongo." E questo era Ronnie. Lui amava guidare le macchine forte." E quando andava tutto bene strapazzava gli avversari con la sua velocità. Ma a Monza quell'anno nessuno l'avrebbe detto che sarebbe finita così: non certamente il pubblico italiano, che dopo anni di severe batoste ritrovava in prima fila una Ferrari. L'ex compagno di squadra alla March, Niki Lauda, si piazzava in pole davanti alle Brabham di Reutemann, Pace e Watson, all'altra Ferrari di Regazzoni e alla McLaren di Fittipaldi. Peterson, settimo, aveva lottato con gli assetti per trovare un compromesso efficace senza riuscirci. Gli uomini della Lotus si giocarono l'ultima carta nella notte tra sabato e domenica, restringendo le carreggiate della 72 per ottenere maggiore velocità di punta. Al via della corsa Peterson infilò subito Fittipaldi, mentre Regazzoni davanti si scatenava per passare le tre Brabham nel corso dei primi tre giri e portarsi alle spalle di Lauda. Poi la rottura del motore di Reutemann e il calo di ritmo sulle altre due Brabham consentirono a Peterson di portarsi alle spalle dei Ferraristi in fuga, tampinato a sua volta da un bellicoso trio formato da Fittipaldi , Brambilla e Scheckter. Di acchiappare i ferraristi, favoriti dalla potenza dei loro dodici cilindri, nemmeno a parlarne, a meno che… Al 21° giro Lauda dovette lasciar passare Regazzoni, causa un calo di potenza che lo portò pochi giri dopo al ritiro. Stessa sorte toccò allo svizzero al 40° giro, mentre Peterson si ritrovava ormai in testa, braccato esattamente come un anno prima da Emerson Fittipaldi, senza che questi riuscisse a trovare uno spiraglio per superarlo. Monza sorrideva ancora una volta a Ronnie Peterson.
Quell'anno lo svedese entrò anche a far parte del team BMW nel Campionato Turismo: un'attività che portò avanti in parallelo alla carriera in Formula 1, anche se con molta meno fortuna. Nel 1975 il verde e rigoglioso parco di Monza dovette apparire a Ronnie improvvisamente triste. Peterson fu autore di una prestazione che rispecchiava perfettamente l'andamento di una stagione: 11° in qualifica con la vecchia ed ormai esausta 72, in preda a problemi di sottosterzo e freni. In gara finì vittima della carambola alla chicane dopo il primo giro, che escluse dalla corsa altre sei monoposto oltre la sua. Il resto della stagione era stato tutto una sequela di prestazioni scarse e di ritiri. Tutto quello che si era riuscito a spremere dalla 72 erano un quarto posto a Montecarlo e due quinti negli Stati Uniti e in Austria. Che le cose sarebbero finite così, lo si era capito fin dal novembre del 1974, quando gatto Warr e volpe Chapman lo avvicinarono chiedendogli di ridursi l'ingaggio: in sostanza gli dissero che erano felici che lui fosse il loro pilota e speravano che volesse continuare in quel rapporto anche nell'avvenire, ma la situazione finanziaria della squadra richiedeva un significativo taglio dei soldi previsti dal contratto. La John Player Special aveva infatti informato repentinamente la squadra di non voler rinnovare il ricco accordo di sponsorizzazione giunto a scadenza. Poi il celebre marchio di sigarette cedette alle pressioni di Colin Chapman e di Peter Warr, ma impose un pesante taglio del 40% sul budget, un'autentica mazzata per un team che aveva un disperato bisogno di inventarsi una macchina nuova partendo dal foglio bianco. Ricordò poi Peter Warr: "Ronnie rispose - e in questo devo dire di essere stato al 100% con lui - che l'ammontare di denaro guadagnato come pilota da corsa è la misura del tuo status nella gerarchia e andava dicendo "Se io facessi questo, l'intero mondo penserebbe inevitabilmente che non sono dove dovrei essere nella gerarchia." Ronnie non era interessato al denaro in se; non aveva uno stile di vita esorbitante e alla moda. Era abbastanza contento di tenersi due macchinette nel garage di casa, ma era preoccupato sulla sua posizione nella gerarchia. Lui ebbe il suo denaro e noi ci ritrovammo senza, così lui non ebbe una monoposto nuova." La cosa ovviamente non finì lì, perché nel tentativo di trovare una soluzione, Chapman cercò di girare Peterson alla ricca Shadow, con il consenso del pilota stesso. Si arrivò ad un passo dall'accordo ma poi non se ne fece nulla. Per consolarsi dalle disavventure professionali, Ronnie decise di sposare in aprile la fidanzata storica, Barbro Edwardson, conosciuta nel 1969 in una discoteca di Orebro e sua inseparabile compagna negli anni successivi. La signora Peterson, tra l'altro una delle più affascinanti cronometriste di quegli anni, in novembre avrebbe dato alla luce una bambina, poi battezzata Nina in onore dell'amica di famiglia e vedova di Jochen Rindt.
Il rapporto già stiracchiato tra la Lotus e Ronnie esplose dopo il Gran Premio del Brasile 1976. Nonostante lo sponsor John Players Special avesse ritrovato le motivazioni per restare accanto alla Lotus in Formula 1, il team si trovava ancora a corto di soldi e la dirigenza persisteva nel tentare di vendere il contratto di Ronnie Peterson. A una situazione tesa in termini di rapporti umani, si aggiunse una monoposto, la 77, che almeno nei concetti doveva rappresentare l'ennesima rivoluzione di Colin Chapman: le misure riguardanti passo, carreggiate e lunghezza, infatti, potevano essere variate sulla base delle caratteristiche di ogni pista, fornendo un'adattabilità mai concepita in precedenza su una monoposto. La 77 si rivelò invece una tigre di carta e per giunta con un frontale molto fragile in caso di incidenti, che spaventò Peterson. Dopo una brutta prestazione in Brasile, all'apertura del campionato 1976, Ronnie decise di prendere la porta e abbandonare il team. Al suo posto arrivò un altro svedese, Gunnar Nilsson, a cui, più tardi si aggiunse Mario Andretti. Ronnie si trovò davanti alla difficoltà di trovare una squadra a campionato iniziato. Gli venne in soccorso il Conte "Gughi" Zanon di Valgiurata, facoltoso uomo d'affari con vasti interessi nell'industria del caffé, che lo aiutò a ricucire i rapporti con la March. All'epoca la squadra aveva una monoposto piuttosto convenzionale, quattro piloti non proprio di primo piano (Vittorio Brambilla, Hans Stuck, Arturo Merzario e Lella Lombardi) e un budget tenuto in piedi dalla partecipazione discontinua di alcuni sponsor abbastanza importanti, tra cui la Lavazza, controllata dalla moglie del Conte Zanon. Per far posto a Peterson fu sacrificata Lella Lombardi, l'unica donna ad aver preso punti nella storia del mondiale di Formula 1. In quella situazione non era da pensare di far sfracelli. Ciò che obiettivamente ci si poteva attendere era un stagione di transizione con qualche bella prestazione, qualche punticino di consolazione qua e là e per il resto parecchia pazienza per sopportare la manifesta inferiorità del mezzo. E invece, proprio in quelle condizioni, Peterson riuscì a compiere il miracolo necessario a tornare a galla. In quella stagione lo svedese raccolse ben dieci ritiri e un sesto posto in Austria, ma a Monza… Mentre tutto il mondo ammirava il ritorno di Lauda, ancora orrendamente segnato dai postumi dell'incidente al Nurburgring, Peterson portava la sua carretta all'ottavo posto in griglia, anche grazie alla retrocessione di Hunt, Mass e Watson, pescati con benzina irregolare nel serbatoio. Al via della corsa Ronnie fu abbastanza lesto da portarsi alle spalle di Scheckter (Tyrrell), Laffitte (Ligier) e Depailler (Tyrrell). Dopo quindici giri Peterson era già in testa e favorito da una leggera pioggerellina settembrina che aveva reso la pista un'insidiosa lastra di vetro, iniziò la sua fuga indisturbata verso la vittoria, lasciandosi alle spalle tutto il gruppo ancora in lotta. Nessuno ebbe il coraggio di andarlo a prendere su quell'asfalto viscido, su cui lo svedese sapeva tenersi così magnificamente in equilibrio. Al 50° giro Ronnie fece segnare addirittura il giro più veloce, alla media di 206,120 Km/h, tenendo un passo che agli altri risultava impossibile.
Fu una grande vittoria che rilanciò improvvisamente le quotazioni di "Super Swede", come lo avevano battezzato i giornali, e a fine stagione riuscì ad accasarsi alla Tyrrell, lasciandosi alle spalle per la seconda volta in carriera la March e un amareggiato Max Mosley. La nuova sistemazione non risultò comunque molto confortevole: la Tyrrel P34 a sei ruote, dopo un promettente inizio nel 1976 culminato con la vittoria in Svezia, piombò l'anno successivo in una insolvibile crisi tecnica. Le piccole ruote anteriori avrebbero avuto bisogno di maggiori attenzioni da parte della Good Year, che invece non fornì alcuno sviluppo, dovendosi concentrare sulle gomme standard per fronteggiare l'imminente arrivo della Michelin. Ancora una volta emergeva una mentalità tesa a guidare la monoposto il più veloce possibile, a volte andando al di là dei limiti, ma senza curarsi eccessivamente della sua messa a punto. "In termini di indirizzo e di doti innate, Ronnie Peterson era fantastico." Ricordò poi in un'intervista Jacky Stewart, "Ma a mio avviso, non era un pilota completo. Ammiravo molto il suo istinto di pilotaggio, ma al di là di questo mancava di rigore nel suo approccio mentale della corsa, e questo gli ha impedito di vincere più Gran Premi. Direi altrettanto di Gilles Villeneuve." Proprio il canadese in quell'anno, sul circuito del Fuji in Giappone, si toccò con la Tyrrell dello svedese e decollò drammaticamente travolgendo un commissario e uno spettatore. Monza '77 portò solamente un sesto posto, dopo una gara in sordina che lo aveva visto partire dal 12° posto in griglia. Nemmeno il resto della stagione era stato esaltante: un terzo posto in Belgio, un 5° in Austria e la bellezza di 10 ritiri dovuti soprattutto alla mancanza di affidabilità della P34. Le sue quotazioni erano nuovamente calate e per trovare un buon volante Peterson dovette ricorrere ancora all'aiuto del Conte Zanon di Valgiurata, che propiziò il suo ritorno alla Lotus. Secondo Jabby Crombac, Colin Chapman sapeva che al fianco di Andretti non serviva un compagno veloce come Peterson: l'italoamericano era abbastanza forte da vincere il titolo per conto suo. Ma i buoni uffici del gentleman italiano (e qualcuno disse anche i suoi soldi, necessari a pagare il pesante stipendio di Andretti) lo convinsero ad accettare nuovamente lo svedese in squadra con il ruolo ben definito di gregario, onde evitare l'esplosione di qualsiasi rivalità tra i due. Probabilmente Andretti non avrebbe neanche avuto bisogno di un Peterson in quelle condizioni contrattuali per vincere il titolo, anche se la lotta sarebbe stata infinitamente più dura, ma Colin Chapman non volle correre rischi, anche perché con Mario aveva instaurato un rapporto aperto e proficuo grazie alla mentalità positiva del pilota, che non rifiutava mai un'idea a priori del vulcanico costruttore inglese, sforzandosi sempre di dare il massimo per far uscire la vettura da un problema di sviluppo. In questo lo aiutava la sua grande ed eterogenea esperienza di corse ed una notevole competenza tecnica, specialmente su un fattore chiave come le gomme. Quella stagione da gregario fruttò a Ronnie ancora due vittorie in Sud Africa e Austria, quattro secondi posti (Belgio, Spagna, Francia e Olanda) in cui coprì spesso le spalle al compagno di squadra senza infastidirlo, un terzo (Svezia), oltre a tre pole position (Brasile, Gran Bretagna, Austria). Nonostante apparisse sempre sorridente e tranquillo, la sua situazione di sudditanza contrattuale finì presto per stancarlo e già dal GP di Olanda Ronnie aveva firmato per la McLaren in vista della stagione successiva. Chapman gli prospettò anche la possibilità di continuare con la Lotus, ma lo svedese sapeva che Andretti avrebbe continuato a mantenere la sua posizione di predominanza all'interno della squadra e trovò più allettante cambiare aria. Quell'anno, dunque, Ronnie si presentò sull'autodromo di Monza con la speranza di un podio, e magari di una vittoria, se Andretti avesse avuto qualche problema. Ma i problemi li ebbe lui fin dalle prove: tra frizione, cambio e freni non gli riuscì di qualificarsi oltre il quinto posto. La domenica mattina, durante il warm up, si ritrovò spiacevolmente con il pedale del freno a vuoto per un errore di un meccanico, proprio mentre giungeva alla chicane, cozzando duramente contro le barriere e compromettendo la sua 79 per la gara. Si ritrovò con la frustrante prospettiva di dover prendere il via con la vecchia 78, che chiaramente non aveva le stesse chance della sua monoposto. Non si diede per vinto, memore di quella trionfale cavalcata del '76. I guai cominciarono con la clamorosa svista della direzione gara, che diede la partenza senza attendere che tutte le monoposto fossero rientrate dal giro di formazione e avessero preso la loro posizione in griglia. Ronnie ebbe qualche esitazione e si ritrovò imbottigliato in mezzo al gruppo, mentre i piloti che non avevano avuto il tempo di fermarsi prima della partenza, procedevano già sparati sul rettilineo, pronti ad approfittare del caos per recuperare posizioni. Alla frenata della prima chicane James Hunt si ritrovò pizzicato in un imbuto tra la Lotus di Ronnie e la Arrows di Patrese, che cercava di passare a tutti i costi sfruttando i margini della pista. L'italiano urtò la McLaren di Hunt che a sua volta toccò il posteriore di Peterson, spedendo la Lotus contro le barriere interne. La monoposto riattraversò la pista per schiantarsi definitivamente contro le barriere di sinistra, incendiandosi in maniera spettacolare e violenta. Nella carambola finirono anche Reutemann, Pironi, Depailler, Stuck, Daly, Lunger e Brambilla. Il rogo fu spento prontamente dai commissari di pista, consentendo a Regazzoni, Merzario e Hunt di intervenire per togliere Peterson dai rottami. Il pilota svedese era rimasto cosciente, sebbene i suoi arti inferiori fossero gravemente fratturati, mentre in assai più disperate condizioni si trovava il pilota italiano Vittorio Brambilla, che aveva perso conoscenza. Di lì in avanti si scatenò letteralmente il caos, tra ritardi dei soccorsi, disinibiti agenti di polizia che chiedevano autografi ai piloti, ancora sgomenti davanti ai rottami fumanti della Lotus, e fotografi a caccia di immagini sensazionali. La sceneggiata continuò poi all'Ospedale Niguarda, dove lo svedese fu ricoverato: i giornalisti ebbero praticamente libero accesso alla struttura, senza alcun riguardo per il pilota svedese. I medici discutevano sulla gravità delle sue fratture, arrivando ad ipotizzare che si dovesse procedere all'amputazione di un arto, ma nell'immediato non vi erano timori per la sua vita. Invece, improvvisamente, Ronnie Peterson si spense nella notte, all'età di 34 anni, per un'embolia gassosa. Oltre al dolore dei genitori, della moglie e della figlioletta, la vicenda ebbe poi lunghi e spiacevoli strascichi: i sospetti di negligenza da parte dei medici davanti ad una morte tanto improvvisa; il processo e le polemiche su chi aveva innescato l'incidente; Patrese, poi assolto nel processo, esposto al massacro per la sua condotta in corsa; la Lotus che partì alla chetichella con i rottami della monoposto per impedire che venisse messa sotto sequestro; il telaio definitivamente fatto a pezzi una volta arrivati in Inghilterra; Vittorio Brambilla che, pur sopravvissuto all'incidente, dovette concludere la sua carriera per i postumi; una dura vertenza sindacale tra la proprietà e le maestranze della Lotus, accusate di non essere riuscite a terminare in tempo la 79 di riserva incidentata nel Gran Premio precedente, che secondo Colin Chapman avrebbe potuto salvare la vita dello svedese; infine la morte improvvisa della moglie Barbro, mai ripresasi dalla perdita del marito, avvenuta a Londra pochi anni dopo sotto l'effetto micidiale di barbiturici e alcool. Fortunatamente lasciò anche qualcosa di positivo: prima di tutto il ricordo di un uomo quieto e riflessivo, che a contatto con una vettura da corsa tirava fuori una seconda anima combattiva e dominata dall'istinto della velocità. Una velocità che è rimasta impressa nella storia dell'automobilismo sportivo e continua a resistere a quasi trent'anni dalla sua scomparsa. Poi una lunga e vittoriosa crociata intrapresa dai piloti per ottenere maggiore sicurezza sulle macchine e sulle piste. Infine, qualcuno direbbe banalmente, si pensa che da cosa nasce cosa: dietro le reti di Monza due occhi appassionati lo ammiravano e seguivano le sue gesta sulla pista in cui lo svedese ottenne di più in carriera. E' incredibile pensare che un'eredità possa passare attraverso il solo tramite di uno sguardo, senza conoscersi, senza toccarsi o parlarsi, ma in questo caso sembrerebbe possibile. Perché Michele Alboreto non riportò in Formula 1 solamente i colori del casco di Ronnie Peterson, il giallo e il blu, ma anche il sorriso gentile di un ragazzo dall'apparenza comune, venuto dal nulla e arrivato a dominare bolidi da corsa, catalizzando la passione e le emozioni di milioni di persone.
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