Enzo Ferrari affermava che “la sfortuna non esiste, c’è soltanto quello che non abbiamo saputo o potuto prevedere.” Un altro a non credere alla sfortuna è stato il tre volte Campione del Mondo Jacky Stewart: “Non credo alla sfortuna. Alla fortuna sì. Alla sfortuna no. Coloro che hanno la fama d’essere sfortunati sono in generale coloro che non fanno tutto il necessario per eliminare la sfortuna”. A sostegno di questa sua teoria espressa nel 1983, il campione scozzese citò un caso noto nella storia dell’automobilismo: “Chris Amon: un ragazzo affascinante, dotato di un enorme talento naturale, ma completamente disorganizzato. Ecco perché nonostante l’eccezionale qualità della sua guida, non riuscì mai a vincere un Gran Premio.”
Nel 2003, però, firmando la prefazione di “Forza Amon”, la biografia del pilota neozelandese curata da Eoin Young, il celebre campione scozzese, pur confermando la sua teoria sulla sfortuna, sembrò mostrare un cedimento a favore dell’amico e antico avversario, concedendo che, in effetti, Chris Amon qualche volta ebbe veramente sfortuna. E probabilmente anche le ferree convinzioni di Enzo Ferrari, che ebbe Amon in squadra dal 1967 al 1969, vacillarono davanti alla sfortuna evidente di questo Paperino dell’automobilismo, tanto da consegnare alla storia un ritratto che è per metà pieno di ammirazione e per metà di delusione per quello che avrebbe potuto essere: “Chris Amon: un Nazzaro degli anni Sessanta, ma senza la sincerità umana dell’indimenticabile artista del volante. In tre anni di corse sulle Ferrari non conseguì i successi che meritava. Vinse sulle sport prototipo, vinse il campionato Tasmania. Mai un Gran Premio di Formula 1. Buon collaudatore, anzi ottimo, guidatore fino e pulito, avrebbe dovuto farsi coraggio in gara. Una forza che invece gli è mancata. Dopo il suo periodo alla Ferrari ha invano tentato con squadre e vetture diverse di superare le avversità che accompagnavano ogni momento della sua carriera.” Eppure, nonostante abbia raccolto così poco, Chris Amon lasciò tanti cuori infranti in Italia e altrove, più di tanti fortunati Gastone che riempirono squadre e tifosi di vittorie. Il suo nome è legato ad un sorriso benevolo da parte di chi ha vissuto quegli anni di corse e la sua vita conserva un certo fascino, a cominciare dalle sue origini nella lontana Nuova Zelanda.
Per la precisione, Chris Amon aprì i suoi occhi sulla vita il 24 ottobre 1943, nei pressi della sperduta cittadina di Bulls. Figlio di un grande allevatore di bestiame i cui antenati provenivano dalla Scozia, a Chris Amon toccò in sorte una fanciullezza agiata, che pagò con un rapido distacco da casa per frequentare lontani collegi privati, dove agli inizi soffrì parecchio solitudine e disciplina. C’erano comunque sempre le vacanze per tornare a Bulls e sfogarsi: a sei anni appena, un pastore dipendente di suo padre gli diede le prime lezioni di guida su una vecchia Ford V8, e con quella il pargolo scorazzava nel cortile della fattoria di famiglia. Crescendo, si manifestarono in lui due grandi passioni: da una parte quella per il volo, quasi naturale in un paese dominato dalle grandi distanze, e dall’altra quella per le corse. Altrettanto evidente era la sua assenza d’interesse nei confronti dello studio. Infatti, non appena ottenne il diploma decise di andare a lavorare sotto suo padre, dedicandosi nel frattempo alle sue passioni: conseguì il brevetto di volo a soli 16 anni, come consentito dalla legge neozelandese, e nello stesso anno acquistò la sua prima macchina da corsa, una Austin A40 Special che girava con una speciale miscela di azoto e sviluppava un mostruoso rapporto di compressione pari a 14:1. Un po’ che la meccanica era esageratamente tirata, un po’ che il materiale non era proprio freschissimo, con quella macchina Chris combinò poco, collezionando rotture e ritiri d’ogni genere. Ma il ragazzo si sentiva divorare dal sacro fuoco per le corse: il connazionale Bruce McLaren era già una stella di prima grandezza e Denny Hulme, “l’Orso”, sembrava abbastanza vicino all’ambiente della Formula 1. Dalla vicina Australia arrivava, invece, “Black Jack” Brabham, già campione del mondo con la Cooper e al pari di McLaren futuro fondatore di una sua scuderia.
Con l’idea di emulare questi campioni, Chris Amon, con l’aiuto finanziario del padre, riuscì a comprarsi una Cooper Climax da 1500cc con cui si guadagnò la prima fila sul circuito di Levin, vicino a casa. Tuttavia, il ragazzo sentiva che la macchina non era sufficientemente potente e dopo quella sola gara si decise a cambiarla con una vecchia Maserati 250F a motore anteriore, comportandosi al contrario di quanto stavano facendo tutti gli altri piloti, che cercavano le nuove e più leggere monoposto inglesi a motore posteriore. L’esemplare di Maserati che Amon ebbe l’occasione di acquistare era particolare, in quanto come primo proprietario figurava l’Owen Racing Organisation, che la usò per testare alcune soluzioni, come i freni a disco Dunlop, poi adottate sulle BRM del futuro. Con l’aiuto del padre Ngaio, Chris riuscì ad ottenere anche l’appoggio della BP, che forniva i carburanti per i mezzi della fattoria di famiglia, e un ulteriore contributo venne dalla filiale neozelandese della Dunlop. Al Gran Premio di Nuova Zelanda del 1962 Amon sembrò un po’ impacciato nel controllo di quella sua nuova creatura, finendo 11° ad un giro dal vincitore Stirling Moss. A Levin, però, il ragazzo vinse la sua batteria di qualificazione, dimostrando d’aver imparato in fretta a gestire un bolide così potente e difficile, anche se poi non poté prendere il via per un guasto. A Christchurch Amon finì ancora 11° dietro al vincitore Moss, attirando su di sé l’attenzione di una vecchia volpe come Reg Parnell, che in Nuova Zelanda gestiva le Cooper per John Surtees e Roy Salvadori. Il talent scout inglese confessò che non vedeva una 250F guidata con tanta abilità dai tempi di Fangio. Con la Maserati Chris fece ancora un paio di corse buone: la prima sul circuito cittadino di Dunedin dove, dopo essere stato in testa alla corsa, non concluse per colpa di un incidente, e la seconda a Remwick, dove giunse 2° al traguardo. Venduta la Maserati, Chris acquistò una Cooper Climax da 2500cc a motore posteriore, con la quale giunse 2° a Tauranga, dietro alla Lotus di Tony Shelly. Poi l’iniezione del motore inglese incominciò a fare i capricci, mandando a rotoli il Gran Premio di Nuova Zelanda sul circuito di Pukekohe, dove fu classificato 7° e ultimo dopo svariate soste ai box, come anche le gare di Levin e Wigram, dove Chris fu costretto al ritiro. Nella corsa di Teretonga, invece, fu il cambio a lasciarlo a piedi. Il destino di Amon era ormai nelle mani di Reg Parnell, che riuscì a mettersi d’accordo con la Shell e la Dunlop per portare il giovane talento in Europa e farlo correre in Formula 1 con una Lola-Climax. Nell’aprile del 1963 Chris raggiunse in Inghilterra il suo mentore, pronto a tentare la grande avventura e, siccome era appena diciottenne, Reg Parnell si assunse anche una certa responsabilità sulla vita morale che avrebbe condotto in Europa, promettendo alla famiglia di sorvegliare la condotta di quel loro unico figlio un po’ scavezzacollo. Una volta giunto a Londra Amon non ebbe molto tempo per pensare a quanto fosse lontana la sua patria: Parnell lo mise sotto ad una fitta serie di impegni in gare nazionali, in attesa di debuttare nel mondiale. Con una macchina che non era proprio un fulmine, Amon si piazzò al 5° posto a Goodwood e finì 6° ad Aintree. Il debutto nel mondiale era previsto in occasione del Gran Premio di Montecarlo, il 26 maggio, ma Chris non poté che disputare le prime prove, perché poi dovette cedere la monoposto al campione e compagno di squadra Maurice Trintignant, in difficoltà con la sua macchina. Il francese era sostenuto da importanti sponsor e pertanto Parnell non si fece scrupolo di lasciare a piedi il giovane astro nascente, maneggiando per farlo ammettere nei successivi Gran Premi. Chris nei pochi giri effettuati si era comunque fatto notare, ottenendo l’ingaggio da Ken Tyrrell per correre con il team Cooper di Formula Junior. Pochi giorni dopo Amon vinse una corsa fuori campionato a Mallory Park e il 9 giugno 1963 debuttò finalmente in Formula 1 sul difficile circuito di Spa Francorchamp, ottenendo il 15° tempo in qualifica e proponendosi coraggiosamente nella gara sotto la pioggia, fino ad artigliare il 7° posto. Poi una perdita d’olio al motore lo tradì dopo appena 10 giri. Al successivo Gran Premio d’Olanda Chris migliorò la sua posizione in griglia qualificandosi 12°, ma fu costretto al ritiro per rottura della pompa dell’acqua, mentre sul difficile circuito di Reims riuscì finalmente a tagliare il traguardo al 7° posto. In occasione del Gran Premio d’Inghilterra, Reg Parnell riuscì a mettersi d’accordo con la Climax per avere un motore più potente da affidare al suo pupillo: con la nuova unità Amon conquistò ancora un 7° posto a Silverstone, ma al Nurburgring finì fuori strada per problemi allo sterzo e a Monza uscì in velocità dalla seconda di Lesmo, riportando la frattura di alcune costole. Si dovette quindi attendere l’ultimo Gran Premio stagionale in Messico per rivederlo in pista, con un 19° posto in griglia e ritiro in gara per rottura del cambio. A fine stagione Reg Parnell poteva dirsi soddisfatto delle prestazioni fornite dal suo giovane pilota, tuttavia si premurò di scrivere al padre Ngaio affinché, durante la pausa invernale, cercasse di far comprendere al figlio quanto fosse importante la preparazione fisica e tecnica nella carriera, spronandolo ad abbandonare quel genere di vita piuttosto oziosa condotta fin lì in Inghilterra. Nel frattempo Parnell tentò di negoziare l’acquisto di una Lotus 25, il modello che aveva appena vinto il campionato con Jim Clark, e di ottenere dalla Conventry Climax uno di quei motori speciali con più potenza, che solo i team di punta avevano a disposizione. Disgraziatamente, nell’inverno il vecchio Reg si ammalò e venne a mancare. La triste notizia raggiunse Amon mentre si rompeva l’anima in una poco fortunata annata nella Tasman Cup con una Lola Climax da 2500 cc, dotata di un maledetto telaio che fletteva e spaccava tutto. Il team Parnell fu in seguito gestito dal figlio Tim, che ovviamente aveva meno esperienza e credito del padre: così la Conventry Climax ritirò il suo consenso a fornire i motori e la squadra dovette montare i V8 BRM sui telai della Lotus. Risultò un ben misero accoppiamento che nel mondiale di Formula 1 fruttò un 5° posto al Gran Premio d’Olanda, un 10° a Rouen, un 11° al Nurburgring, una mancata qualificazione a Montecarlo e ben 5 ritiri per guasti. Andò un po’ meglio fuori campionato con 3 quinti posti a Snetterton, Siracusa e Silverstone e un 4° ad Enna. Il 1964 vide anche il debutto di Amon alla 24 Ore di Le Mans, entrando nell’orbita della Ford con il team di Carroll Shelby, che stava dando assai fastidio alla Ferrari nel mondiale sport con le sue micidiali AC Shelby Cobra. In occasione della celebre maratona francese al pilota neozelandese, in coppia con Neerpash, fu affidata una potente coupé Daytona, con la quale rischiò di vincere la categoria GT, prima di essere squalificato per una batteria irregolare usata durante i pit stop. Il 1964 fu anche l’inizio di un periodo estremamente gaudente nella vita di Chris, perché si trasferì a vivere a Surbiton, sobborgo a sudovest di Londra, in Ditton Road, nello stesso appartamento dove già abitavano “Mike the bike” Hailwood, celebre pilota motociclistico, in procinto di passare sulle vetture da corsa con l’aiuto di Parnell, Peter Revson, erede della dinastia proprietaria della popolare casa di cosmesi Revlon, anch’egli con ambizioni nel mondo delle corse, e Bruce Harrè, ingegnere incaricato dello sviluppo delle gomme Firestone. Di tanto in tanto, passavano di lì anche Bruce Abernathy, autonominatosi manager di Amon, Tony Maggs, pilota della Cooper e Howden Ganley, anche lui con un futuro in Formula 1. Secondo il racconto di Eoin Young, “Revson divideva una camera con Bruce Harré, Chris la divideva con Abernathy e Mike aveva una stanza con 10 ragazze…basata su un sistema a rotazione.” Gli scatenati ragazzi, poi soprannominati “The Ditton Road Flyers”, ci davano dentro parecchio con feste e festini ad alta gradazione alcolica, mentre i vicini si davano altrettanto da fare, rimpinzando la loro cassetta della posta e quella della padrona di casa con accese lettere di protesta contro i loro insopportabili schiamazzi. Lavoro extra anche per i poliziotti di quartiere: un giorno sì e l’altro pure, i tutori della legge rompevano le scatole a Tim Parnell perché facesse qualcosa per tenere a freno i suoi scatenati piloti. Interrogato qualche anno fa da Mario Donnini su quel periodo, Amon ricordò che “correre era pericoloso ma, mi creda, ad avere Mike Hailwood di notte in giro per casa si rischiava molto di più. [] Con Mike ci si divertiva, altrochè.” Nel frattempo la carriera di pilota sembrava andare a rilento: nel 1965 corse soltanto due Gran Premi in Francia e Germania, sempre con la Lotus 25-BRM di Tim Parnell, collezionando due ritiri. Si rifece correndo con la Ford nel campionato sport, alternandosi tra le vecchie Cobra e la nuova GT40. Durante l’estate, l’amicizia di Harré e qualche buon consiglio da parte di Bruce McLaren gli consentirono di svolgere alcuni collaudi con la Firestone. Durante una di queste sessioni, Harré, in vena di burle, fece togliere e rimontare di nascosto lo stesso treno di gomme sulla sua vettura: Amon uscì in pista, fece qualche giro a bordo del bolide e rientrò ai box, lasciando tutti sorpresi nell’affermare con sicurezza che quelle gomme funzionavano esattamente come le precedenti. Ingaggiato dalla Midland Racing Partnership per correre il Gran Premio di Formula 2 sul circuito di Zandvoort, in Olanda, dopo una bella battaglia con il pilota tedesco Mitter, Chris riuscì a portare alla vittoria la sua Lola T60 Cosworth. Poche settimane dopo, chiamato da Bruce McLaren, ustionatosi in corsa, lo sostituì nella gara per vetture sport di Silverstone: su una McLaren-Elva da 5 litri Amon si scatenò in una fulminante partenza dall’ultima fila e, dopo un’aggressiva rimonta, si propose primo al traguardo. Con la stessa macchina colse poi ancora una vittoria sulla pista di Sainte Jovite in Canada. Il campionato Can-Am rappresentò tra i maggiori impegni di Chris per il 1966: sempre con una McLaren conquistò un 3° posto a Sainte Jovite, un 2° a Bridgehampton e a Mosport Park avrebbe potuto finalmente vincere, se la Chaparral di Phil Hill non gli avesse tagliato la strada proprio mentre era in testa alla corsa, spedendolo fuori pista. Niente da fare nelle successive corse a Laguna Seca e Las Vegas, dove raccolse due ritiri per problemi meccanici. Anno decisamente magro in Formula 1, dove Bruce McLaren, ansioso di coinvolgerlo nella sua squadra, s’infilò nel disastroso progetto di adattare il V8 Ford per Indianapolis alla nuova formula da 3 litri, appena entrata in vigore. L’unico ingaggio che Chris riuscì a trovare nella massima serie fu una partecipazione al Gran Premio di Francia con una Cooper Maserati, dove si piazzò a stento 8°, nonostante la solita montagna di noie. Oltre che con la Can Am, Chris si tirò fuori il pane con i test per conto della Firestone e guidando la speciale GT40 della MGM, dotata di telecamere, con la quale girò alcune scene poi utilizzate nel film “Grand Prix” di John Frankenheimer.
Quel 1966 fu anche l’anno della sua vittoria alla 24 Ore di Le Mans, l’evento che rappresentò insieme un punto di svolta nella sua carriera e il successo di maggiore importanza nel suo palmares. In coppia con Bruce McLaren, la sua Ford GT 40 non era nemmeno la favorita alla vittoria, in quanto i boss della Ford e Carroll Shelby pensavano e speravano che a vincere fosse la vettura gemella, affidata all’equipaggio Hulme-Miles, anche perché quest’ultimo s’era sobbarcato tutto il lavoro di sviluppo del nuovo modello e, dunque, meritava la vittoria. Per giunta la macchina di McLaren-Amon era l’unica a montare gomme Firestone, mentre tutte le altre viaggiavano con le più competitive Goodyear. Questo significò un ritmo di gara iniziale inferiore per la coppia neozelandese, almeno fino a quando Carroll Shelby invitò i due piloti a farsi montare le Goodyear: con le gomme della concorrenza la faccenda prese tutta un’altra piega e la GT40 iniziò a volare, siglando tempi da Gran Premio fino a trovarsi in testa e vincere la corsa, proprio davanti alla vettura gemella dei favoriti Hulme-Miles. Nel frattempo in Ferrari si andava cercando il sostituto di John Surtees, che aveva appena divorziato dalla squadra. Franco Gozzi, il braccio destro di Enzo Ferrari, ricordò che all’epoca si rivolsero alla Shell, che attraverso le sponsorizzazioni controllava il mercato piloti, per vedere chi c’era a disposizione. Il gigante petrolifero consigliò Chris Amon e Danny Hulme, affermando che tra i due c’era sicuramente un futuro Campione del Mondo: la Ferrari si orientò su Chris perché più giovane del connazionale. Inizialmente l’impegno con il cavallino riguardò soprattutto le gare sport, perché per la Formula 1 c’era sempre da fare a gomitate con i compagni di squadra. Per il 1967, infatti, oltre a Chris erano a disposizione della rossa Bandini, De Adamich, Hawkins, Klass, Parkes, Scarfiotti, Sutclife e Jonathan Williams, più o meno tutti con la speranza di poter poggiare, almeno una volta, il fondoschiena su una delle due o tre monoposto che la squadra schierava nei Gran Premi. Per intanto bisognava darsi da fare con le sport e Amon dimostrò di non avere timori reverenziali, portando alla vittoria la 330 P4 alla 24 Ore di Daytona in coppia con Lorenzo Bandini, con il quale si trovò subito in sintonia, nonostante uno parlasse poco l’italiano e l’altro poco l’inglese. Per la cronaca, quello fu l’anno della gloriosa parata sul traguardo, con la macchina dei vincitori davanti alle gemelle di Scarfiotti – Parkes e Rodriguez – Guichet: un terribile schiaffo in casa della rivale Ford. Dopo Daytona Bandini e Amon fecero ancora centro alla 1000 Km di Monza, e con il pilota italiano Chris avrebbe dovuto dividere l’abitacolo di una 330 P4 anche alla 24 Ore di Le Mans. Purtroppo Lorenzo Bandini morì per le conseguenze del tragico rogo al Gran Premio di Montecarlo, scatenatosi in seguito all’uscita di pista alla chicane del porto, mentre cercava di contendere la testa della corsa alla Brabham di Denny Hulme. In quella tragica giornata Chris Amon, che con la vittoria a Daytona si era guadagnato un posto in Formula 1, giunse 3° al traguardo e non si dimenticò più del mercoledì precedente, quando lui e Lorenzo erano andati nell’entroterra monegasco a pranzare e sulla strada del ritorno se l’erano presa comoda, perché l’italiano sembrava volersi godere quietamente la primavera, la natura in fiore, un vecchio che pescava sulla costa, il mare e tutto ciò che gli sorrideva intorno. Quasi uno strano presagio in quell’incredibile voglia di vivere, pensò poi Amon. E quel 3° posto a Montecarlo si rivelò una specie di limite invalicabile: Chris in quella stagione arrivò ancora 3° a Spa, a Silverstone e al Nurburgring, a cui aggiunse un 4° posto a Zandvoort, un 6° a Mosport Park, un 7° a Monza, un 9° a Mexico City e due ritiri al Bugatti di Le Mans e al Watkins Glen. Alla 24 Ore di Le Mans, invece, la macchina prese fuoco in seguito alla foratura di una gomma che fece strisciare cerchio e sospensione sull’asfalto per qualche chilometro: a Chris toccò buttarsi fuori dal bolide ancora in corsa per non rimanere in trappola tra le fiamme. Ai commissari di percorso, che lo stavano cercando affannosamente tra i rottami roventi della vettura, fece venire una sincope comparendo all’improvviso alle loro spalle: “Ehi, sono qui!” In quei tempi la leggenda di Amon Paperino della Formula 1 non esisteva ancora e con i risultati raccolti nel suo primo anno, alla Ferrari potevano dirsi soddisfatti del rendimento offerto. In particolare Chris si era guadagnato la simpatia del direttore tecnico della squadra, Mauro Forghieri, il quale lo ricordò poi così: “Un omino schivo, dotato di una sensibilità di guida decisamente superiore. Non l’avevo scoperto io, lo sapevano anche quelli della Firestone, da cui Chris proveniva. Nessuno sapeva collaudare le macchine come lui e, all’epoca, nessuno tranne lui sapeva stare davanti a gente come Jim Clark o Graham Hill.” A proposito di Jim Clark, quell’inverno il campionato Tasmania visse sul duello tra il giovane Chris Amon con una Ferrari motorizzata Dino V6, e lo scozzese su una Lotus 49 T. In un paio d’occasioni, come al Gran Premio di Nuova Zelanda o nella gara sul circuito di Levin, Chris riuscì a battere il pilota della Lotus, anche se non si valutò mai alla sua altezza: “Non mi sono mai sentito uguale a Jim. Abbiamo lottato molto, è vero, ma lui trovava sempre qualche risorsa extra. E mi batteva, magari in volata, di solo un centimetro…” Di lì a qualche mese, il grande Jim Clark sarebbe scomparso inspiegabilmente durante una gara di Formula 2 sul circuito di Hockenheim, schiantandosi con la sua Lotus contro un albero. Ma altri abili campioni si contendevano le luci della ribalta: alla fine del 1967 si parlò dell’astro nascente Jacky Stewart alla Ferrari; poi invece arrivò il belga Jacky Ickx, autentico sovrano su pista bagnata, che decidendo di non risiedere in Italia scaricò tutto il lavoro di collaudo su Amon. Poi c’era l’austriaco Jochen Rindt, ai tempi pilota Brabham, con il quale Chris coltivò sempre una rivalità esasperata su tutti i fronti, dalle donne alle corse. La stagione 1968 fu piena di rammarico per Chris Amon, che poteva concretamente diventare Campione del Mondo: velocissimo in qualifica, conquistò la pole position in Spagna, Belgio ed Olanda e la prima fila in Gran Bretagna, Germania, Italia, Canada e Messico. Purtroppo in gara non andò oltre il 2° posto a Brands Hatch, a cui aggiunse un 4° in Sud Africa e un 6° in Olanda, collezionando una serie impressionante di stupidi ritiri: in Spagna gli si ruppe la pompa del carburante quando era in testa; a Spa, dove aveva fatto segnare il record del vecchio circuito, rimastogli poi in perpetuo, un sasso gli bucò il radiatore, sempre quando era in testa alla corsa; Al Nurburgring uscì di pista. A Monza scivolò su una macchia d’olio, si esibì in un terribile looping e, sbalzato fuori dall’abitacolo, si fermò in mezzo ai rami di un albero senza nemmeno un graffio: chiamatela, se volete, fortuna. In Canada lo tradì la trasmissione, ancora una volta mentre si trovava al comando della corsa; negli Stati Uniti si ruppe un tubo dell’acqua e in Messico lo piantò la pompa del circuito di raffreddamento. Nulla da fare anche in Can Am, dove Chris aveva convinto Enzo Ferrari a schierare una macchina derivata dalla P4, la 350, dotata di un motore maggiorato a 4176,22cc e in grado d’erogare una potenza di 480 CV a 8500 giri/min. La mancanza di un'adeguata assistenza e qualche difetto di troppo in frenata condannarono Amon a scarsi risultati. La stagione 1968 fu decisiva nella diffusione degli alettoni e in Ferrari Amon si ritrovò giudice della soluzione tra l’ing. Forghieri, che ne negava l’efficacia, e l’ing. Caliri, che invece ne sosteneva l’utilità: “Mentre Forghieri era fuori al seguito delle gare, ”- ricordò poi Caliri- “io montai un piccolo alettone posteriore su una Formula 1. Ferrari fu il primo a vederlo e me ne disse di tutti i colori: ma cos’è il carrettino del gelataio? Non m’impedì, tuttavia, di andare in pista a Modena, con Amon. E Chris, che era sì sfortunato come pilota, ma era un grandissimo collaudatore, capì immediatamente che quel piccolo alettone dava dei vantaggi sostanziali.” Lasciate le amarezze della Formula 1 e della Can Am, Chris andò a svernare come al solito in Nuova Zelanda, dove conquistò finalmente la Tasman Cup con la Dino di Formula 2 e il motore V6 da 2400cc. Se l’anno prima aveva dovuto vedersela sopratutto con Clark, adesso le forze avversarie sembravano moltiplicarsi con le velocissime Lotus di Hill e Rindt e con la Brabham di Courage, che fu forse l’avversario più strenuo da battere nella corsa al campionato. Fresco vincitore in casa propria, Chris era pronto a buttarsi nella mischia della stagione ’69, che tuttavia si rivelò un autentico disastro: 5 ritiri su 6 gare e un 3° posto a Zandvoort come unico risultato valido. In Spagna toccò ritirarsi addirittura mentre si trovava in testa alla corsa, causa la rottura del motore, che quell’anno diede parecchi problemi.
Se già non fossero bastate le avversità della stagione precedente, con questa serie micidiale di ritiri nasceva definitivamente la leggenda di Amon sfortunato. Andò un po’ meglio in Can Am, dove Ferrari schierò la mostruosa 612 da 6222,16 cc e 620 CV, che in terra americana fu gestita direttamente da Amon, come accadeva con le Dino nella Tasman Cup: 3° a Watkins Glen, 2° ad Edmonton in Canada, 3° a Lexington e 6° in campionato. La macchina non era poi così male, ma pesò la mancanza di ricambi, tanto che si dovette perfino adattare pezzi del motore Chevrolet per rimettere in sesto il grosso 12 cilindri italiano dopo una rottura. Intanto la pressione in azienda e quella della stampa italiana, che aveva messo sotto processo i piloti, oltre alle oggettive difficoltà tecniche che sembravano accentuarsi con la fragilità pavesata dal nuovo 12 cilindri boxer per la Formula 1, indussero Chris a guardarsi intorno alla ricerca di un’alternativa alla Ferrari. Il neozelandese era a caccia di una macchina motorizzata Cosworth, visto che in quegli anni il V8 inglese era ai vertici e batteva propulsori sulla carta ben più potenti. La scelta cadde sulla neonata March. In Ferrari qualcuno rimpianse la partenza di Chris, soprattutto i tecnici che ne avevano apprezzato la preparazione e la sensibilità di guida. Forghieri ammise poi che spesso non erano stati in grado di fornirgli una macchina all’altezza delle sue capacità. Altri furono un po’ più sottili e “cattivi”. Franco Gozzi ha recentemente ricordato così il pilota neozelandese e la sua cosiddetta sfortuna: “Ingenuo topolino di campagna in mezzo ai gatti cittadini, si muoveva incerto in ogni circostanza e spesso, che si trattasse di rapporti con donne o trattative di affari faceva la scelta sbagliata al momento sbagliato. Arrivò in fabbrica una volta dopo le feste di Natale con una novità: si era sposato. Una donna minuta, una Venere tascabile, si chiamava Barbara. Poco dopo si divise, confessando puerilmente: “In Nuova Zelanda mi era sembrata bella, qui in Europa è bruttina”. Cominciò a convivere con un’altra Barbara, austriaca, vedova del pilota Lucky Cassner, poi fidanzata di Jochen Rindt, e non si è mai capito se l’avesse conquistata o non gli fosse stata scaricata dal diretto interessato. [] A chi della squadra Ferrari i pataccari della Rambla Catalana di Barcellona poterono sbolognare un falso brillante? Chi comperava una Mercedes e poi la lasciava fuori dal garage e così il gelo (un evento rarissimo a Vallelunga) gli faceva crepare la coppa dell’olio? Chi poteva insistere per essere pagato in sterline perché doveva investire nella March e la sterlina, nella medesima settimana del pagamento svalutò del 18%? Chi in Germania, fregandosene di ogni contraria raccomandazione, volle prendere una ox tail soup, un intruglio di coda di bue, e poi per tre giorni andò in pista debilitato dalla diarrea? E i ladri quale appartamento di Modena svaligiavano ogni tre o quattro mesi? E nel porto di Napoli a chi riuscivano a fare due volte il pacco della stecca di sigarette ripiena di segatura?”
Il neozelandese che aveva imparato a parlare in dialetto modenese andò a correre in Inghilterra con la March. Per la prima volta lui e il rivale Jacky Stewart disponevano dello stesso mezzo, la mediocre 701, ma mentre lo scozzese portò a casa una vittoria in Spagna, Chris non riuscì ad infrangere la sua maledizione e non andò oltre i secondi posti di Spa e di Clermont Ferrand, a cui aggiunse un 3° posto in Canada, un 4° in Messico, due quinti a Brands Hatch e al Watkins Glen, un 7° posto in Italia, un 8° in Austria e 5 ritiri. Se ad inizio stagione la macchina sembrava abbastanza veloce ed era possibile qualificarsi nelle prime file, con l’arrivo della nuova Lotus 72 nelle mani di Jochen Rindt la musica cambiò decisamente e l’austriaco impose il suo dominio, mentre le March navigavano sempre più indietro. Per i soci del team contava sopratutto l’immagine, e quando Chris a Hockenheim si ritrovò con una macchina che entrava nel rettilineo principale in osceno sovrasterzo, Mosley lo invitò a cambiare il modo di affrontare quella curva, “perché fa sembrare che la macchina non funzioni bene”. In definitiva, non solo Chris si ritrovò in un team non esattamente costruito intorno a lui, come gli era stato inizialmente prospettato da Max Mosley e Robin Herd, ma non prese nemmeno tutta la cifra pattuita: “Mi devono ancora tre quarti della somma”. Purtroppo Chris ritrovò la 701 anche allo STP Team di Andy Granatelli, con il quale disputò la tribolata Tasman Cup del ’71, che lo vide insolitamente lontano dalle posizioni di vertice. Nel ’70 Chris si accordò anche con Bruce McLaren per disputare la 500 Miglia di Indianapolis su una delle sue vetture. Svolse tutte le prove preliminari, ma dopo il terribile incidente che costò la vita allo stesso McLaren, in cui la macchina si spezzò in due sotto effetto del carico aerodinamico generato dalla grossa ala centrale, Chris perse la fiducia nella vettura e abbandonò il programma una settimana prima della corsa. Il contratto con la francese Matra riportò Amon nell’olimpo dei piloti più pagati della Formula 1: la squadra di Jean Luc Lagardere aveva un ottimo telaio, ma un 12 cilindri che non era il massimo in termini di potenza e affidabilità. Gli inizi con la Matra furono da urlo, con Chris che andava gagliardamente a vincere il Gran Premio di Argentina… fuori campionato. Una semplice corsa promozionale per ottenere la validità mondiale, a cui partecipò la Matra, la Lotus e un plotone di Formula 5000. Il campionato reale fu assai più tribolato: un 3° posto in Spagna, due quinti in Sud Africa e Francia, un 10° in Canada, un 12° negli Stati Uniti e 4 ritiri. Ma la gara più disgraziata fu il Gran Premio d’Italia, a Monza, dove, dopo aver conquistato la pole, Chris si trovò in testa, inseguito da Peterson, Cevert e Gethin. Ma in vista degli ultimi giri, determinanti per la vittoria, Amon si ritrovò improvvisamente senza la visiera del casco, volata via mentre cercava di pulirla dall’olio e dallo sporco. Inutile dire che dovette alzare il piede per concludere la corsa al 6° posto. Nemmeno il 1972 portò risultati di rilievo, tranne un esaltante 3° posto nel Gran Premio di Francia, a Clermont Ferrand: dopo aver ottenuto la pole position e percorso 20 giri nelle posizioni di testa, gli toccò precipitarsi ai box per una foratura. Ributtatosi in pista al 9° posto, Chris si prodigò in una generosa rimonta dove letteralmente sverniciò diversi avversari, fino a concludere sul gradino più basso del podio. Quel Gran Premio rappresentò al medesimo tempo il massimo dell’idillio con il pubblico francese, che letteralmente lo accolse in trionfo, ma anche il punto di svolta della sua carriera, che dopo quel momento magico iniziò inesorabilmente a scivolare verso il basso. Su consiglio dello stesso Amon, Jean Luc Lagardere ritirò la Matra dalla Formula 1: secondo il neozelandese non era tanto un discorso legato alla capacità tecnica del team francese, quanto la possibilità di agire rapidamente per rendere la macchina competitiva. Amon, dopo un fulmineo e folle ritorno di fiamma con la March, che ruppe il contratto ancora prima dell’inizio del campionato per mancanza di soldi, finì per accasarsi nuovamente in Italia, presso la Tecno dei fratelli Pederzani, a Bologna. Sulla carta l’operazione non era poi così male: la Tecno aveva costruito validi telai per i kart, la Formula 3 e la Formula 2 e nel momento di passare alla Formula 1 aveva negoziato un favorevole accordo di sponsorizzazione con la Martini & Rossi, che oltre tutto portava l’esperienza di David Yorke, ex direttore sportivo della Vanwall e del John Wyer Automotive. Le buone premesse si trasformarono in un disastro senza fondo: due telai, uno costruito a Bologna da Allan McCall, ex meccanico di Jim Clark, e una monoscocca concepita in Inghilterra dallo specialista Thompson. Il primo telaio fu pronto ad inizio stagione e con quello Amon conquistò un punticino mondiale al Gran Premio del Belgio, in condizioni penose per il caldo terribile sviluppatosi nell’abitacolo, che lo lasciò disidratato all’arrivo. Lo sviluppo di questa macchina fu presto congelato perché si attendeva la monoscocca dall’Inghilterra, che invece tardava. Quando la nuova macchina arrivò non si riuscì a decidere quale delle due andasse meglio e meritasse d’essere portata avanti. In verità i due telai lavoravano bene, ma il 12 cilindri boxer della Tecno era drammaticamente fragile e privo di potenza, e i Pederzani da quell’orecchio non ci sentivano. Alla fine la proprietà litigò con Amon, accusandolo di non fare il suo dovere, con la Martini che non dava abbastanza soldi e con Yorke che tirava dalla parte dello sponsor. Ognuno se n’andò per la sua strada e Amon finì la stagione con Ken Tyrrell, che schierò per lui una terza macchina nei Gran Premi di Canada e Stati Uniti. Chris non sapeva che Stewart aveva già comunicato alla squadra di volersi ritirare alla fine di quel 1973, altrimenti avrebbe considerato quella come un’importante prova, cercando di dare il meglio di sé. Invece, fuori allenamento e demoralizzato, in Canada corse male e negli Stati Uniti non poté rimediare perché la morte di Francois Cevert causò il ritiro della squadra. Non contento di aver già fatto il “botto” con una sua azienda, una sorta di Cosworth che elaborava propulsori su base Ford, poi rilevata dalla March, in vista della stagione ’74 Chris decise di fondare un suo team in società con l’uomo d’affari John Dalton. Ormai Amon s’era convinto che nessuno poteva fornirgli la macchina giusta: doveva farsela da solo. Il progetto della vettura fu affidato a Gordon Fowell, un tecnico di scarsa esperienza ma con idee all’avanguardia: la nuova Amon-Dalton, infatti, era caratterizzata da sospensioni con barre di torsione in titanio, dalla novità assoluta del serbatoio centrale in posizione di sicurezza, da freni entrobordo con giunti universali e da un’originale aerodinamica anteriore con un’ala che si alzava sopra il muso a cuneo. Purtroppo tanta innovazione fu pagata con un’eccessiva fragilità, specialmente nella complessa sospensione anteriore. L’esperienza assunse presto i tratti di un disastro totale e la macchina non funzionò mai a dovere, tanto che la stagione ’74 Amon la finì su una non meno decotta BRM, con la quale raccolse un misero 9° posto negli Stati Uniti.
Ormai pareva che Chris fosse giunto alla fine della sua carriera ma, inaspettatamente, dopo un’altra Tasman Cup, dove conquistò una vittoria a Teretonga su una Talon di Formula 5000, alla fine della stagione ‘75 rientrò nel giro per disputare due Gran Premi con la Ensign di Mo Nunn. L’accordo fu protratto anche al 1976: la monoposto non era male, con una bella linea pulita, ma era fragile e mancavano le risorse per svilupparla. A Jarama Chris conquistò un importante 5° posto, mentre ad Anderstorp riuscì a qualificarsi in terza fila. Furono gli ultimi acuti di Chris Amon, che dopo il terribile incidente di Niki Lauda al Nurburgring decise di averne abbastanza di rischiare la vita. Sciolto l’accordo con Mo Nunn, Amon fece ancora una corsa in Canada con la squadra del petroliere Walter Wolf e di Frank Williams, in cui nemmeno prese il via, perché durante le prove Ertl gli finì addosso proprio mentre si trovava fermo in mezzo alla pista. Con Walter Wolf c’era un rapporto di stima e Chris corse anche in Can Am con la sua squadra e la macchina progettata da Dallara. Inoltre seguì lo sviluppo iniziale della WR1, la monoposto che il petroliere canadese fece costruire per la stagione ’77 di Formula 1, vincitrice al debutto nel GP di Argentina con Jody Scheckter. Furono poi Amon e Wolf a segnalare Gilles Villeneuve a Enzo Ferrari, in vista della sostituzione di Niki Lauda. Gilles, infatti, correva in Can-Am nella squadra di Wolf, sotto la direzione di Amon. Dopo quell’esperienza Chris tornò in patria con una nuova moglie e riprese le redini della fattoria paterna, dedicandosi all’allevamento di mucche da latte. Qualche anno dopo ebbe nuovamente l’occasione di mettere a frutto la sua leggendaria sensibilità di guida, lavorando come collaudatore alla Toyota per deliberare gli assetti delle vetture di serie prodotte dal colosso giapponese. Come ospite della squadra Toyota di Formula 1 è poi ricomparso di tanto in tanto nel mondo dei Gran Premi, per notare com’è cambiato questo sport dai tempi in cui correva lui e per testimoniare d’essere un sopravvissuto. Altri piloti che a suo tempo erano stati considerati più fortunati, come Clark, Bandini, il vecchio compagno di stanza Revson, McLaren, Rindt, Cevert e decine d’altri, ottennero più successi e gloria di lui, ma non portarono la pelle a casa. Paperino, forse, ma con tutte le piume intatte e la simpatia delle moltitudini che lo hanno ammirato nei suoi anni più belli.
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